Con la mostra “Umano Disumano”, Akira Zakamoto esplora nuove tematiche attraverso un linguaggio espressivo inedito. L'esposizione si concentra sul complesso rapporto in evoluzione tra l'umano, l'inumano e la natura, affrontando il tema della trasformazione e della poetica della mutazione.

Il progetto nasce dalla più recente ricerca dell’artista, raccolta nel libro “Umano Disumano” in cui indaga il passaggio dall’umano verso dimensioni super-, sub- o trans-umane, proponendo una visione critica del presente. In un mondo in cui la tecnologia anela a un futuro di armonia e progresso, l'artista sottolinea le contraddizioni del presente: guerra, ignoranza e devastazione ambientale. Queste tensioni si riflettono nella reazione della natura, che da oppressa si ribella, inglobando l'umanità e le sue creazioni in un ciclo di distruzione e rinascita.

Le dieci grandi tele, imponenti per dimensioni e ricchezza cromatica, incarnano un dialogo complesso e affascinante tra il mondo umano e quello naturale, prendendo ispirazione dalle poesie che fungono da sotto testo narrativo e simbolico. La scelta di rappresentare volti femminili e fiori in forme che oscillano tra il figurativo e lo stilizzato invita l'osservatore a esplorare un racconto stratificato, che intreccia temi di trasformazione, bellezza e connessione spirituale con la natura.

L'inclusione di oli essenziali dalle fragranze floreali rappresenta un'innovazione audace e sinestetica che espande l'arte pittorica in un’esperienza che coinvolge non solo la vista, ma anche l'olfatto, rendendo le opere vive e tangibili.

La mostra di Zakamoto si configura come un’esperienza immersiva e stratificata, in cui il pubblico è chiamato a immedesimarsi in un video onirico che esplora paesaggi urbani uniformi, spazi liminali e dimensioni metafisiche. La scelta di proiettare il video in loop crea una temporalità fluida, sospesa, dove l’osservatore perde la cognizione del tempo e si ritrova intrappolato in un viaggio condiviso che non ha né un inizio né una fine.

La colonna sonora, elemento centrale del progetto, amplifica l’impatto delle immagini attraverso un ritmo ipnotico e ricorsivo. In essa emerge un chiaro omaggio al lungometraggio “Umano, non umano” di Mario Schifano, capolavoro del cinema sperimentale italiano che, con il suo battito cardiaco ricorrente, connetteva frammenti visivi eterogenei. Zakamoto riprende questa intuizione e la reinterpreta utilizzando il suono del cuore come simbolo universale e archetipo ritmico, capace di unire paesaggi apparentemente alieni e costruire un’unità sensoriale che travalica la dimensione narrativa.

Allo stesso tempo, il video richiama l’opera filosofica “Umano, troppo umano” di Nietzsche, proponendo una visione antimetafisica che si allontana dall’ideale romantico e mistico per abbracciare un’analisi razionale e disincantata. Zakamoto si pone in continuità con questa riflessione, ma la riformula in chiave visiva e sonora: i suoi spazi liminali non sono tanto luoghi di transizione verso un altrove, quanto il simbolo di un’assenza di risoluzione definitiva, un rifiuto di qualsiasi sistema di pensiero che pretenda di chiudere il cerchio.

La ricerca di Zakamoto si posiziona quindi in netto contrasto con ogni approccio cerebrale che mira a spiegare il mondo attraverso strutture logiche o metafisiche, opponendovi un’esperienza che si nutre di ambiguità, dove il viaggio non è lineare e le immagini si fanno portatrici di una molteplicità di significati.
Possiamo affermare che questa mostra si presenta come un manifesto contemporaneo dell’antimetafisica, capace di dialogare con le avanguardie passate senza replicarle, ma traducendole in un linguaggio conforme alla sensibilità del nostro tempo. L’intreccio tra visivo, sonoro e filosofico fa di questa esposizione non solo un evento artistico, ma anche una profonda riflessione estetica sul nostro rapporto con la realtà e i suoi confini.


Marcella Magaletti

Si trattava all’apparenza di un globo roccioso come molti altri, classificato come pianeta, ma troppo sfuggente per rientrare nell’orbita di una stella qualunque. Vagava alla deriva senza meta, solitario e trascurato persino dagli esploratori più tenaci dell’impero galattico. Nemmeno agli occhi delle scimmie spaziali, L74M aveva la minima attrattiva economica, dato che su di esso crescevano nient’altro che colossali rovi di materia grigia, allungati dall’arida superficie fin oltre i confini della ionosfera, come a proteggerlo dagli abusi della dittatura democratica.
Se solo vi fosse stato un qualche oceano a rendere più prospera la vita su di esso, migliaia di coloni sarebbero approdati come formiche per estrarne nutrimento, manipolarne le coste e fondare porti commerciali dal quale ricavare ingenti fonti di guadagno fino a prosciugarlo come già era successo al pianeta Terra. Eppure L74M risultava talmente spoglio e ostile alla vita civilizzata da essere lasciato in pace, libero da ogni forma di legge o governo.
Insomma nessuno avrebbe sospettato che, ben nascosto nelle profondità del pianeta, vi fosse celato in gran segreto un complesso labirinto di gallerie e grotte rigogliose. Là sotto crescevano fiori dai colori mai visti, intere vallate verdeggianti da percorrere a cavallo, nuvole di cotone e castelli di lino, sorretti da strutture in legno, ma alimentate dal correre di correnti elettriche, tendenti all’indaco come il cielo di quelle terre sotterranee, che gli Akira chiamavano casa.
Era una questione di isolazionismo. Il desiderio di restare indisturbati caratterizzava quelle terre, il sogno della quiete scorreva nelle vene del popolo di L74M come la brama di potere che invece infettava le scimmie spaziali dall’alba dei tempi. Anche in questo modo però, data la natura creativa degli Akira, risultava impossibile voltare le spalle alle ingiustizie dell’impero galattico.
Quà e là per le vastità dell’infinito, i mondi si facevano la guerra mentre ragnatele burocratiche rendevano impossibile la vita degli affamati, ma più semplice quella dei sazi nazi. Così L74M aveva decretato all'unanimità un compromesso con se stesso: gli Akira avrebbero spedito indaco e fiori, cotone, legno e lino nello spazio esterno, mescolandoli al già sovraccarico sistema postale dei mille mondi civilizzati; davvero non riuscivano a darla vinta all’impero, alle scimmie spaziali che brindavano dopo ogni strage, ad ogni presa per il culo, per ogni elettrodomestico consumato dall'obsolescenza programmata e sulla nota più alta di ogni bestemmia della repressa classe operaia.
Di certo il messaggio sarebbe stato recapitato con qualche secolo di ritardo, l’impero galattico avrebbe tentato di far sparire quelle tracce di pensiero divergente dal proprio sistema informatico, ma da qualche parte, almeno qualcuno, si sarebbe ritrovato un tesoro sullo zerbino, nella buca delle lettere o poggiato sul parabrezza dell’auto a secco.
Così agli abitanti di L74M, per essere in qualche modo soddisfatti del proprio contributo, bastava pensare al sorriso che avrebbero fatto i fortunati che, aspettandosi sommessamente di raccogliere una multa o la notifica delle tasse da pagare, avrebbero pensato invece

Forse esiste un mondo migliore

Mattia Motolese

"Umano Disumano Vol. 2" non è semplicemente un libro. È un archivio di frammenti, una raccolta di dettagli che sembrano invisibili eppure ci accompagnano costantemente, disegnando una mappa dell’esistenza. Ogni parola si percepisce come una traccia lasciata sulla sabbia, pronta a scomparire ma al tempo stesso capace di restare, sospesa tra l’effimero e l’eterno. Luca ci guida attraverso questa catalogazione di pensieri e ci invita a osservare il quotidiano con occhi nuovi, facendoci riscoprire la sottile assurdità che si nasconde dietro l’ordinario.
In ogni verso, in ogni frammento, sentiamo la presenza di un inventario dell’anima. I pensieri non detti, gli oggetti dimenticati, i volti che sfuggono: tutto si intreccia, creando uno spazio mentale in cui il reale si confonde con il surreale. Attraverso questa lente, la sua poetica diventa una raccolta di dettagli che sembrano piccoli, ma che raccontano storie più grandi, sospese tra passato, presente e futuro, fermi in una loro immobilità.
Muoversi tra le righe è come camminare in una città infinita, un percorso che sfugge alla linearità. Il lettore si trova immerso in una trama frattale di memorie e sensazioni. Luca ci mette davanti una lente capace di svelare gli spazi nascosti tra un pensiero e l’altro, quelle crepe sottili da cui si affaccia la riflessione sull’umano e sul disumano. E così, ogni frammento si unisce a creare una possibile storia di noi stessi e di ciò che potremmo essere.
Ma oltre questa catalogazione chirurgica della vita, emerge un’inquietudine, un’anima irrequieta. "Umano Disumano" ci lascia sospesi sulla soglia dell’indecifrabile, spingendoci a riflettere sulla stessa natura dell’umanità. E ci invita a chiederci cosa significhi davvero essere vivi in un mondo che sembra sempre più lontano da se stesso.
Questa poesia, con il suo oscillare tra ironia e tragedia, si trasforma in un archivio dell’esistenza, in una mappa degli spazi tra le cose. Le pagine di Luca ci conducono in un labirinto fatto di epifanie quotidiane, dove sensazioni e visioni parallele si svelano a poco a poco. Il suo obiettivo non è spiegare il mondo, ma renderlo visibile attraverso dettagli che rimangono in sospeso, fluttuanti nell’aria, come se aspettassero di essere colti.
Non ci sono risposte facili in queste pagine. Il libro ci spinge a domandarci cosa sia rimasto di noi, di ciò che significa essere umani in un’epoca che sembra aver perso il senso dell’essenziale. Ci lascia il compito di diventare archivisti del nostro stesso smarrimento, raccogliendo i frammenti di un mondo in frantumi, per tentare di trovare una nuova coerenza.
Alla fine, rimane una domanda, quella che ci riguarda tutti: cosa significa esistere in un mondo in cui ombre e luci si fondono con così tanta facilità?

Riccardo Mantelli

L’amicizia. Quando un tuo amico, che è anche uno dei tuoi artisti preferiti (pittore o meglio, creatore di immagini), ti chiede di scrivere la prefazione al suo ultimo libro, questo Umano Disumano Vol.2, venuto fuori immediatamente dopo il Vol.1, edito nella primavera del 2024 (con la prefazione di un altro comune amico, Luca Atzori, perfomer teatrale e poeta molto speciale, certamente originario di una galassia lontana), non puoi che essere felice.
Scrivere su Luca Motolese, in arte Akira Zakamoto, nato nel 1974 a Torino, è molto complicato, a meno che non si inizi propriamente dall’essere umano, quel Luca che conosco non da molti anni, ma in fondo è un po’ come se fosse sempre stato lì con te, in un modo o nell’altro: Luca, l’amico mitico di tuo fratello maggiore, Luca, il cugino più grande che ti porta in vespa per la prima volta (e tu hai undici anni).
Prefazioni precedenti (Vol. 1, L. Atzori). Ora, però, è necessario fare una sorta di premessa, che ha già il sapore di una conclusione: il nostro Luca non è un “artista” e questo libro non può essere stato prodotto da un “poeta”.
Sono pienamente d’accordo con ciò che il già citato alieno Atzori ha scritto, introducendo il primo volume:
Lo sguardo trasversale di Luca Motolese va oltre l’appartenenza e l’identificazione. L’artista del presente è sempre anche un po’ quello del futuro, non ancora riconosciuto a pieno. L’artista ridotto a essenza, forse povera, come quelli senza spirito, cuore e denaro. (..)
La riflessione si conclude con un interpello necessario al Vate CB:
(..) Carmelo Bene, figura che anticipava questa “inappartenenza” alle arti. Con il suo teorizzare un cinema che non può farsi con il cinema, un teatro che non può farsi con il teatro, una pittura che non può farsi con la pittura (..).



Friedrich Wilhelm Nietzsche, porsi in “ascolto”, eterno ventenne. Il volume secondo si apre con almeno una citazione dallo Zarathustra di Friedrich Wilhelm Nietzsche, il filosofo dell’impossibile, forse il più amato durante la nostra tarda adolescenza, insieme ovviamente ad Hermann Hesse, prima che piombi su di noi quello strano rossore sulle guance, vinti da un senso di vergogna, tipico di chi vuol dimenticare quanto invece siano stati educativi quei primi momenti di erotismo e di autoerotismo, chiusi nella propria stanzetta.
Nietzsche che non è filosofo, ma fa grandissima letteratura; per i letterati non fa poesia, ma è un magnifico filosofo. Lui poi è un filologo classico, per qualche anno lavora come docente universitario, prima di scoprire il vento o il fuoco wagneriano. Il ragazzo di Röcken, nel corso del tempo, è diventato una sorta di toyboy della cultura medio-alta, ha duemilacinquecento anni, ma resterà per sempre un inquietante ventenne pieno di sogni.
D’altronde anche la filosofia non si può fare con la filosofia. Non è un discorso intorno all’interdisciplinarità ai tempi della globalizzazione, no, qui c’è in ballo qualcosa di più profondo e sfuggente (anche il discorso sul Post-Modernismo non ha più senso, fatto oggi, nel 2024).
Semplicemente ciò che fa Nietzsche è quello di porsi sempre in “ascolto” rispetto alle cose del mondo, visibili/invisibili, e alla sua maniera è quello che fa il nostro Luca Motolese.
Inaugurazioni, prima e dopo. Durante l’inaugurazione di una sua recente mostra, con chi gli si avvicina, Luca evita di parlare di “tecnica”. Partendo da un riferimento altrui di un ritrovato o scoperto dettaglio che possa essere ricollegato ad un altro dettaglio e poi ancora all’infinito, fino ad arrivare al pittore tal dei tali del 1976, rispetto alla sua opera esposta (ad esempio Porco Nero), Akira-Luca interviene il meno possibile. Lo conosci? Ti sei ispirato a lui? Lo hai visto sui social, per caso? È sicuramente qualcosa che riguarda l’inconscio collettivo. Mentre l’improvvisato esperto esibisce le sue carte, Motolese è pronto a prendere tutto di lui, potrebbe succhiargli anche l’anima, e nel giro di pochissimo tempo inglobarlo in una sua opera, visiva o scritta che sia.
Le serate post-presentazioni, poi, sono un invito a Dioniso, alla vita e alla sana confusione. In ordine molto sparso, si parla di musica rock, di fumetti e manga, delle guerre nel Peloponneso, di amicizia, di post-femminismo e di robot, di planisferi, di genitori, delle canzoni di Piero Ciampi, di un film di Fassbinder, di retrogame e dei nuovi videogames, di Gaza distrutta, di pandemie e di restrizioni, dei figli, degli amori e dei viaggi in motocicletta, della prima invenzione tecnologica della storia (la ruota?), di Carlito Tevez, della regina africana di Nzinga di Ndongo e Matamba.
Parliamo del Vol.2? Ma lo stavamo già facendo… Anche in questo splendido e misterioso libro, Umano Disumano Vol. 2, emergono situazioni che compongono il puzzle della vita, di ogni vita possibile. Mettersi in “ascolto” significa contemporaneamente essere in perenne “distacco critico”. Nulla è pienamente soddisfacente nella nostra società contemporanea, le “non-poesie” di Motolese, chiamiamole pure “pensieri” o “frammenti”, mancano di una “forma definitiva” (lo stesso per le sue opere pittoriche, non catalogabili, vivono in un vortice continuo di movimento): fissare uno “stile” di scrittura o di pittura va contro l’atteggiamento di “apertura” di “ascolto” e di “distanza critica”? Probabilmente sì.
Umano, troppo umano e Umano Disumano, non cadiamo nel giochino del confronto e dell’ispirazione. Motolese-Zakamoto non cita o riprende nessun testo famoso del passato; qui si tratta di un atteggiamento condiviso.
Nel frattempo tiriamo fuori un grande critico d’arte dal cilindro.
Così scrisse di lui Edoardo Di Mauro, all’interno di un catalogo per una mostra torinese del 2023, intitolata Media-Mente Falso:



(..) ha la capacità di sferrare duri colpi all’ipocrisia della società dello spettacolo e dell’immagine, che caratterizza la nostra dimensione attuale, adoperando segni, simboli ed inserti “vintage”.
Il collage e i contrasti sono disseminati un po’ ovunque anche in questi discorsi scritti; ad esempio nel sesto frammento, intitolato In trattoria, in cui tornano alla ribalta i “ritardati” (vedi Vol. 1), con il loro culo appoggiato su un cuscino di lana di pecora della Mongolia, la cui nota a piè pagina sulla parola in questione – oggi stroncata in quanto considerata “politicamente scorretta” – apre il campo al combattimento, attraverso la satira di costume (molto interessante la personalissima definizione che Motolese dà di “progresso”). In altri testi ritroviamo ancora questi “ritardati”, incapaci di vedere i nuovi rischi della mercificazione, del consumismo, del controllo: si chiama ancora una volta “capitalismo”, lo stesso maledetto mostro, sempre lui. I “cattivi” vengono nominati, per cognome, burattini a loro volta di un sistema, come nel divertentissimo testo Pandemonium girotondo scientista.
L’omaggio commovente ad un nuovo amore, le riflessioni sulla propria famiglia, i rimandi a situazioni avvenute con amici e amiche di una vita, la presenza del mare, sono delle pause improvvise di silenzio dal caos della nostra società, ma la paura che possano essere rovinate dal mondo dei “ritardati” o almeno contaminate, è molto forte (l’amore, la famiglia, l’amicizia, in fondo non sono convenzioni sociali create dalla stessa società democratica-capitalista?).
Stop! Conclusione! Si potrebbe andare avanti ancora per molto, ma che senso avrebbe, godiamoci questo libro, corriamo a vedere i suoi quadri, ne usciremo più confusi, sicuramente migliori e più felici.
Daniele Isabella

Dopo Umano Disumano vol.I mi sono persuaso che fosse necessario un prologo come questo, in prima persona singolare onnisciente universale. Si, è urgente! Me ne sono convinto. Lo scrivo con la mano sinistra perchè la destra ancora mi fa male. Ha preso un brutto colpo. Un trauma l’ha percossa quando lì nel vitigno caprigno festeggiando sono scivolato in uno occulto burrone. Con il riscaldamento globale a cui sono arrivato in questo infausto inferno, fra torturate labbra infuocate e danzanti asessuati in calore, è assolutamente indispensabile che io diparta per raggiungere inesplorate vette di ghiacciai oramai scongelati pressoché inesistenti; incalzare lo stivale sul terreno fangoso fra milioni di fossili di milioni di anni e di acque bollenti finalmente tornate a fluire in moto discensionale donando nuove profondità all’abisso. Scrivo con la mano sinistra perchè la destra è impegnata ad accelerare sui percorsi tortuosi di monaci religiosi che emergono e vengono così a galla intorno al monte nudo. E fra una cima e l’altra in alto tesa la corda del funambolo sta, sospesa, così che all’occorrenza ci si possa ritrovare li sul monte a celebrare l’esistenza, accomunati solo dalla solitudine dell’essere solo. Virtuoso me che scrivo con la mano sinistra per alterare la mia calligrafia e confondere il flusso della coscienza, in modo che rileggendomi poi mi sembri che tutto sia stato scritto da qualcun altro, anche se alla fine sarà stato tutto dattiloscritto e non si avrà più niente da leggere. Circonduco verso sinistra anche il senso di colpa che non mi consente di ridere di me stesso e di prendermi gioco di quel ritardato che sono, sempre stato. Infatti, ho capito solo ora che i giapponesi non hanno il senso dell’umorismo e che per giocare è necessario essere almeno in due. Topologicamente occorre pensare che un monte che abbia una vetta abbia pure una valle; o che ci sia almeno un’altro, donna; e che la donna abbia almeno due vette oltre alla valle ! E così via discorrendo… Per superare questa tragica caduta nel pantano di fossili e fango bisogna imparare a ruderci sopra. Volevo scrivere riderci, ma ruderci potrebbe andare bene lo stesso. Bisogna farsi, anzi, fare bambini e lasciarli giocare insieme, lasciandoli abitare le vette scongelate e farli pisciare giù in testa ai ritardati tanto elogiati. Con disincanto e leggerezza, i bambini abiteranno quei luoghi dove tutto è sacro e dove il testo più sacro che è stato conservato è un manuale pratico intitolato "scoreggiare senza cagarsi addosso”. Ci vediamo dunque li in cima al monte bambino per prenderci aulicamente gioco di quei ritardati che spingono la moto in linea retta orizzontale facendo girare le ruote in tondo al contrario. Quelli rimasti indietro sono progressisti forsennati vinti dall’inerzia che corrono a velocità fotoniche in linea retta come fanno i razzomissili, senza mai cambiare traiettoria se non quando si piegano schiacciati dal peso dell’atmosfera, compiendo sette giri e mezzo del globo al secondo per ritornare sempre e per sempre allo stesso momento in cui avevano accelerato per muoversi da li. Che poi sono sicuro che il ritardato prima o poi se lo domanderà se spingere la moto causa il ritardo o se è poiché sono ritardato che spingo la moto. Chissà. Per fortuna c’è sempre da imparare e da prendere esempio. La mitica moto di Motolese per esempio è diversa dalle altre a ben guardare. Evolutissima tecnologia futuristica bio-meccanica vietata ai maggiori di 6 anni, con un cupolino minuscolo a misura di lillipuziano e dei pulsantini atomici come quelli dello startac, il telefono cellulare con cui è impossibile decidere che numero comporre. Sono arcisicuro che sia una tecnologia prodotta in quel luogo che alcuni chiamano “Giappone”, dove l’ironia della sorte ha voluto che lo usassero per imparare a fare gli scherzi telefonici; e sono anche sicuro che risalga all’epoca post imperialista, almeno un trentennio dopo il celebre harakiri del generale Nogi, al tempo del boom economico scaturito dalla distruzione di Phoenix. Insomma questa tecnologia si mette paradossalmente in moto premendo un solo pulsante. Pul. Zak Zak Tumb Tumb. E via. Partita al primo colpo, si trasforma in un razzomissile che sfreccia fra le vette verso l’alto, e poi un poco discende, finché colpisce Montecitorio. Si narra che i monti più bassi vengano sacrificati dalla ferocia selvaggia della tecnologia impazzita, mentre l’intelligenza umana saprà rifugiarsi su vette ben più alte. D’altronde ‘sta moto è una entità deficiente di spirito di iniziativa, un mezzo come un altro e i suoi attributi dipendono dall’uso che se ne fa. In ogni caso intanto mi affaccio un pò, almeno per vedere se il razzomissile ha funzionato. Ha funzionato. Montecitorio assomiglia ora più a un pantheon. La recessione avanza fra boschi di braccia tese, tubi, leve, freni e frizioni; ma anche grazie a banane e ai razzomissili sui palazzi e sulle chiese. Il mondo finalmente si è riaperto alla visione femminista, si che io penso di parlare a nome di tutti quando dico di essere anche io un pò Giorgia. Si è così! Ma che bel castello Marcon Diron Dirondello! È perciò che m’arrovello diceva la dama con l’orpello. Ma il principio è sempre quello: se una cosa sai che non puoi fare, agisci evitando di parlare. Sicchè mi sono convinto di essere convinta di volerlo creare un partito d’azione femminista ed evoluzionario che chiameremo in coro “fallo”. Devo sempre ricordarmi di portarmi dietro una banana; anzi, non dietro, magari me la metto nella pochette che è più comoda e graziosa, che non si sa mai se dovessero scambiarmi per un pirata della strada giapponese potrei sempre fargliela vedere questa o quella evoluzione, e starei sicuro che così mi riconoscerebbero. Quando parlo di evoluzione e di giraffe i nervi m’affiorano alla pelle. Divento subito Darwinista; anzi Darwiniano, perché preferisco ragionare col culo. Se penso che le giraffe si siano evolute nel tempo perdo le staffe. Pare che in principio fossero una specie di bastardo incrocio fortuito fra un bardotto e una testuggine, che, senza entrare troppo nei dettagli, si accoppiavano, dando origine a una specie rara, poiché quasi sempre sterile, di giraffa somala a collo corto. Creature pressoché mitologiche, lente, poco utili ad alcunché, nemmeno per fare il brodo. Venivano crudelmente maltrattate dai coloni che le se le trovavano innanzi dopo la grande traversata atlantica orizzontale verso sinistra. Tali animali erano buoni solo alla soma, e perciò i coloni gli tiravano il collo facendoli trainare grandi carichi di oro, diamanti incensi, mirra, pannocchie e canne da zucchero fino innanzi alle grosse navi in approdo, lasciandoli poi a terra stremati, poiché con quel collo allungato dalla fatica non stavano nella stiva della nave, che infatti è una tecnologia sicuramente concepita in oriente. E così qui sulla vetta di questa montagna mentre piscio contemplo estasiato la meraviglia dell’ora del crepuscolo, quando tutte le creature sembrano affaccendate e c’è un gran movimento nell’aria e le zanzare volano fra le ultime righe di sole che ritirandosi accrescono la penombra dove i pipistrelli disegnano cerchi in moto circolare a bassa quota e il picchio s’affretta a dare le ultime martellate incalzando il ritmo tamburale e l’urla di guerra di pappagalli verdi che s’agitano fra i razzomissili mentre è già ora di emigrare di nuovo verso nuovi orizzonti. Ora, se stai ancora sorridendo senza sapere perché, questo è lo spirito giusto con cui approcciare questa meravigliosa lettura. Sei pronto per voltare pagina.
Gio Montez

La poesia, la pittura, il cinema. Di per sé sono oggi forme espressive ridotte agli orari dopolavoristici. Le persone passano il tempo a produrre e portare avanti le loro rappresentazioni deliranti, in un sapere sbagliato, ipocrita e violento.
Lo sguardo trasversale di Luca Motolese, va oltre l’appartenenza e l’identificazione. L’artista del presente è sempre anche un po’ quello del futuro, non ancora riconosciuto a pieno. L’artista ridotto a essenza, forse povera, come quelli senza spirito, cuore e denaro. Così mi ritrovo una poesia dedicata. Forse perché sono anche io quel povero.
È infatti dalla mia baracca che scrivo questa prefazione. Nella zona in cui le parole sono flatus vocis, senza più forza trasformatrice. Luca Motolese, mio omonimo, rappresenta per qualche verso zoppicante, un po’ anacoluto, un alter-ego. E al limite ci sta una rappresentazione antagonista, un incendio visivo, sui frame cinematografici di un pittore, un esponente della pop art italiana, Mario Schifano. Ricordo bene il suo film “Umano non umano”. Ci ero capitato in uno dei miei vari periodi di ossessione per Carmelo Bene, figura che anticipava questa inappartenenza alle arti. Con il suo teorizzare un cinema che non può farsi con il cinema, un teatro che non può farsi con il teatro, una pittura che non può farsi con la pittura e così via per tutte le arti.
Il fine non è più la pittura, nemmeno la poesia. Ma una sorda parresia , nel bisogno folle di risolvere questa realtà, questa volontà claudicante, che si scioglie nelle rappresentazioni volgari di un quotidiano ignorante, ma potente. Oppressioni e bombardamenti, laddove non materiali, subiti nel destino che giorno dopo giorno non scegliamo ma ci incastra. Così che ci ritroviamo circondati da quelle figure che Luca Motolese chiama i “ritardati”. Che sono spesso quelli che decidono chi deve indossare questo stigma, perché non conformi alla sabbia angosciosa di inutilità cui tutti si adeguano ogni momento. È per questo che Luca dice che noi “giochiamo”. Perché questo è l’arte. Sfogare quell’immensa amarezza in un piano immaginario, mentre ogni santo momento siamo schiacciati dall’indifferenza di chi non può più nemmeno cogliere le nostre parole. L’arma degli stupidi è diventata non potersi più nemmeno offendere, così ecco perché i “ritardati”. Ormai irrecuperabili ci mettono nel loro posto, perché noi chiediamo di starci. Nel posto che sarebbe loro assegnabile dal buon senso. Quello dell’isola fuori dall’umano. E invece eccoli, sono proprio loro, gli umani. Quell’oltre ricercato da Nietzsche, diventa il luogo dell’emarginazione, dello strabismo di chi non sa più quale sia la direzione. Gli zombie li chiamava Carmelo Bene. E così via, in un fiume di disprezzo che è l’unica gioia di chi senta le catene per una ragione o per l’altra.
Eppure diventa così cristiano e insieme nietzschiano quell’insegnamento paterno che ci racconta il nostro, quando dice a suo figlio “odia gli stupidi, aiuta i deboli”. Spesso il meccanismo diventa ancora più intricato quando si capisce che alcuni di questi stupidi sono anche deboli, perché incapaci di disobbedienza, relegati al loro ruolo, la loro sicurezza, che li rende incapaci di capire. Minacciati da quei bisogni che vengono dal basso, di chi dice parole che non possono essere accolte, perché troppo vere.
Padri che insegnano ai loro figli a disubbidire, la più difficile delle discipline.
Così ricorda addirittura l’Angioleri quando trova la sua personificazione nell’uragano.

"È passato l'uragano Zakamoto!"
Ha distrutto tutto, anche le case dei cattivi.
Ha indebolito gli stupidi e istupidito i deboli.
Ha trovato difetti, rimpianti, male, ignoranza,
e nemmeno una goccia di speranza.

Quel desiderio di catastrofe che ci incolla ai televisori, tra una notizia sui bombardamenti a terra su Gaza, qualche accelerato sensazionalismo sui venti di guerra in occidente, giusto per risvegliare qualche endorfina militare nel cervelletto lucertolino e poi qualche scossa ai Campi flegrei, uniche speranze di salvezza, come quando il figlio di Motolese gli annuncia l’apocalisse. Un'attesa ansiosa delle catastrofi. Eppure la vera catastrofe, è che qualora accadesse questa apocalisse, non sarebbe una apocatastasi. I più fortunati avrebbero comunque più vie di fuga, una loro priorità. D’altronde hanno pagato, no? Per fare una fila all’aeroporto di mezzo minuto più breve. Già, il tormentone, chi sono i veri poveri. Chi si svuota il portafoglio per dipendere dalla vita in ufficio, da dove ascoltare il penultimo singolo di Tananai e pianificare la prossima tonta sborrata dentro la moglie.
E in fondo quando Motolese ci parla di D’io, ci ricorda Levinas quando dichiarava che Dio è l’altro. E anche l’io è un altro, si lo diceva quell’altro. È proprio lì la chiave. Qualcosa che non ci appartiene, proprio perché appartiene a noi. Lo vediamo, ci accompagna, ci guida, ci induce in tentazione, come un diavolo. L’io, e quel qualcosa che gli appartiene, dunque D’io.
Ma immersi come siamo nel dataismo, privi di quella inconscia frustrazione di non appartenere a quella macchina amministrativa che in anti-social catena ci lega e ci divide. Uniti più che dalla responsabilità, dalla colpa. La dipendenza fredda del quieto vivere.
Pagine piene di speranza, seppure non apparenti e banali. Come quando si augura la vita eterna per i figli e non per sé. Perché solo un condannato può amare. E quell’amore è in fondo egoistico nel suo autoannullarsi, perché l’amato sempre se ne fa poco dell’amore. Gli serve per vivere, per avere senso e nient’altro. Questioni che paiono ovvie, ma che sono solo brevi momenti. Non possono durare troppo. L’amore è sempre un attimo che dura qualche minuto, che ci prende e ci pensiamo per giorni, per anni, per tutta la vita, ma come un ricordo sbiadito. E così arriva la voce di quel padre la cui funzione è solo quella di restare. Di diventare eterno nell’eternità dei suoi figli. Qualcosa che è un altro da sé. Sempre nei pressi di Charleville, un poeta che ha le visioni, che fa sogni, che dipinge perfettamente in stile metafisico, pur non essendolo, pur essendo anti-metafisico, laddove nel caos della rabbia e della frustrazione, vi è movimento, ardore e confusione. Fotoni che non possono essere raccolti dalla cornea. Forse pochi sguardi, quelli di Luca (l’altro che sono io) o quello di Annalisa, e immagino quelli di tanti altri, come Daniele, Giuseppe, Chiara, Alessandro, Hadil, e ancora tanti altri, alla fine il mondo acceso di sguardi davanti alle sue opere. Lui che non fa pittura, perché è un artista. E quando gli si sta accanto, si vede nella stanza un telo ancora da finire. Ogni tanto si siede e da una pennellata. Incredibile come un uomo seduto possa fare tutto questo. E disumano, forse, perché non ne possiamo più di quei rumori che provengono dalla strada, mentre le formiche stanno quiete, ormai assorbite dalla loro metafisica. È proprio vero, Luca Motolese non è un pittore, ma un poeta anti-metafisico. Perché avere investito sulla catastrofe ha il significato di accettare che domani sempre i forti vinceranno sui deboli, e che abbiamo una grande libertà, quella leopardiana di dissentire con la natura, con l’immondo pianeta su cui mettiamo i piedi, con quel brutto potere che domina a comun danno e vanità di vanità, la vostra povertà mi rende ricco.
Luca Atzori

La pittura, così come tecniche di riproduzione affini sul piano della bidimensionalità  e della "bassa definizione" quali grafica, fumetto, immagini pubblicitarie, è attualmente divenuta strumento privilegiato di espressione artistica.
L'arte in generale è, da un po' di anni, considerata fenomeno "alla moda".
Complice un'euforia in buona parte artificiosa e determinata, a mio parere, principalmente dall'invasività , per certi aspetti anche benefica, di un apparato comunicativo che, sempre più famelico di argomenti da dibattere e divulgare, ha scoperto, da ultimo, anche l'arte come detentrice di una non trascurabile nicchia di interesse, in particolar modo quando si avvale degli strumenti retorici dello stupore e del sensazionalismo, come ben ha insegnato la sagace lezione di marketing della nuova arte inglese.
Questo "ritorno alla pittura" è figlio della stanchezza prodotta dagli anni '90, in parte perpetuatasi anche nel decennio successivo, con la loro ininterrotta sequela di trovate neo-concettuali banalmente citazioniste e sterili dal punto di vista linguistico. In realtà  la pittura, dopo un'evidente assenza dalla scena durata alcuni anni, dovuta alla fenomenologia di un'arte che aveva imposto gli ardori minimalisti ed analitici del Concettuale storico, è ritornata in forze sulla scena dopo la metà  degli anni ‘70, dapprima in solitaria, dagli anni '80 in poi, fino ad oggi, in compagnia di altre modalità  espressive che danno corpo all'eclettismo artistico contemporaneo.
Il tramite pittorico viene usato per stabilire con lo scenario contemporaneo un rapporto di evocazione, sublimando il reale per trarne i riposti umori, sfidando la fotografia e costringendola a adeguarsi rincorrendola sul suo terreno.
Quanto oggi appare parzialmente inedito e stimolante è l'attitudine a mescolare con disinvoltura tracce e visioni appartenenti di pari alla cultura "alta" ed a quella "bassa". Brani di storia si mescolano a visioni psichedeliche e metropolitane, insieme a simboli appartenenti al repertorio tradizionale della pop art, così come alla moda all'illustrazione, al fumetto, creando una equilibrata miscellanea che sembra rinverdire i fasti dei migliori anni Ottanta, quando si manifestò la riscoperta dell'individualismo e la ricerca di un'estetica appagante in grado di contaminare i generi.
Il rapporto tra "arte pura" ed "arte applicata", nel corso del Novecento spesso sbilanciato a favore della seconda, pronta a carpire dalla prima le innovazioni linguistiche per adattarle alla cultura di massa, adesso pare posizionato su di un livello di perfetto equilibrio, con i due ambiti ad assumere la funzione di vasi comunicanti.
Questa vocazione ad un ‘arte "totale", rinvenibile anche in forme di grafica che tendono alla creazione di un linguaggio proprio, lontano dalle mode, con una grammatica ed un vocabolario originali, per riuscire a comunicare in un mondo già  saturo di segni, in un design ecosostenibile, nella Street Art ed in particolari forme di artigianato artistico metropolitano, costituisca la novità  più rilevante di questi ultimi anni.
Il lavoro di Akira Zakamoto, che colpevolmente non conoscevo, mi ha positivamente colpito per la sua capacità  di sferrare dei duri colpi all'ipocrisia della società  dello spettacolo e dell'immagine che caratterizza la nostra dimensione attuale, adoperando segni, simboli, oggetti ed inserti "vintage", si ascrive in pieno alla temperie prima descritta, a cui fornisce un contributo di notevole originalità .
Zakamoto, all'anagrafe Luca Motolese, ha una formazione di studi e di professione legata alla grafica pubblicitaria, al cinema ed alla comunicazione, tutte componenti rinvenibili in quella sapiente miscellanea di spunti visivi che sono le sue composizioni, quasi sempre pittoriche, con un sapiente uso delle tonalità  e delle scale cromatiche, talvolta sfocianti nella tridimensione, con la realizzazione di opere ironicamente votive, ispirate sempre alla sua capacità  di creare dei corto circuiti temporali tramite l'uso di ritagli dell'immaginario mediale o legati all'universo infantile, con la creazione di argute metafore che parlano della contemporaneità  adoperando simboli ed icone del recente passato. Ho visionato con grande interesse la produzione di Zakamoto, divisa in serie tra loro collegate da una precisa coerenza ideologica, solo in apparenza temperata dalla piacevolezza estetica della composizione.
Per lanciare messaggi efficaci non occorre trincerarsi dietro ermetismi concettuali, l'immediatezza è strumento efficace e didatticamente utile a creare un interesse che porta poi ad interrogarsi sul contenuto della rappresentazione.
In alcune tele predominano simboli dell'immaginario infantile, giochi retrò, pattern decorativi che giocano sul filo della memoria, creando una sottile sospensione metafisica.
In altri i protagonisti provengono dal mondo dei manga giapponesi, e dei robot super eroi, che difendono il mondo dall'apocalisse, replicando la stoica abnegazione e spirito di sacrificio dei samurai, icone provenienti dalle visioni adolescenziali dell'autore che, come molti della sua generazione, ed in parte anche della mia, di un quindicennio più anziana, subì il fascino del Giappone, visto come una terra in grado di coniugare la tradizione con il futuro, la disciplina con un'eccentrica trasgressione.
Le opere selezionate per questa personale presso la Galleria Spazio 44, che conferma la sua caratteristica di operare scelte originali e non conformi, ha come titolo "Fake News", ed è una riflessione sulla fallacità  e distorsione della comunicazione attraverso i media, sostanzialmente immutata nel tempo e nello spazio, ed oggi amplificata unicamente in virtù del progresso tecnologico e della comunicazione simultanea tramite web.
Facendo leva sul suo spirito di collezionista di oggetti di modernariato, passione che per molti versi ci accomuna, nel suo studio si trovano reperti dei decenni trascorsi davvero interessanti ed originali, Zakamoto ha trovato, nei mercati dell'usato e da privati, prime pagine d'epoca riferite ad avvenimenti tra i più significativi della storia del Novecento, il "secolo breve".
Queste prime pagine, tratte da eventi che spaziano dalla rivoluzione bolscevica, alla seconda guerra mondiale ed all'illusione nazifascista, anche con la sconfitta alle porte, di potere imporre un nuovo ordine, per passare alla ricostruzione ed al boom economico e chiudere con gli anni Sessanta e due esempi tra loro antitetici e contraddittori come l'avventura spaziale e l'insensata e tragica guerra del Vietnam, destinata a marchiare in negativo una generazione, vengono incorniciate non prima di essere dipinte da spiazzanti icone.
Queste ultime rappresentano personaggi dell'immaginario artistico, la Venere del Botticelli, culturale riferito alle avanguardie storiche, il grande poeta Majakovskij, del fumetto e dei videogiochi d'antan, come i robot giapponesi, Super Mario, l'Uomo Tigre, dell'esplorazione spaziale, Gagarin, del cinema, Apocalypse Now ed altri ancora, che stabiliscono un collegamento metaforico con la carta stampata, in sintonia con il sapiente gioco tra vari livelli, sempre tra loro collegati, della memoria, dell'immagine e della comunicazione, alla base dell'originale lavoro di Akira Zakamoto.
Edoardo Di Mauro - Direttore Accademia Albertina

In queste tele rivivono Gundam, Actarus, Devilman e Goldrake. Guerrieri ed eroi, eletti a giustizieri supremi nella pittura di immagini tutt'altro che sentimentali, quanto più evocative e significative. Sono immagini che trasmettono messaggi inequivocabili, spesso ironici, talvolta surreali, attraverso un linguaggio universale che si appella ai ricordi dei cartoni animati, ancora oggi presenti nella memoria di chi guarda.
Nella raffigurazione del guerriero-eroe, subisce il fascino delle fasi eroiche delle dittature. Osservando "Cold war" e "Jeeg", infatti, non si può fare a meno di pensare ai manifesti di propaganda nazista, alla solennità  delle pose ritrattistiche di Mao Tse-tung ("In gold we trust"), o alla celeberrima chiamata alle armi dello Zio Sam rivolta ai giovani americani. Il pop-politico di Zakamoto indaga il rapporto tra messaggio e oggetto in dipinti che sembrano rà©clame pubblicitarie. La mistificazione del quotidiano si rivolta nella condanna dei valori economici, della stessa cultura pop e delle sue menzogne (sopra tutti "Actarus7up" e "Putsch" che distrugge un verosimile Palazzo Montecitorio), come se l'artista fosse mosso dal dovere di raccontare il suo tempo, senza riuscire a tenere a freno l'aspra critica alla contemporaneità .
Quello di Akira Zakamoto è un mondo di forti contrasti e di iperboli, che ragiona sulla vita attraverso le metafore del gioco e dell'infanzia. àˆ una scelta carica di significati, poichà© le immagini futuribili e fantastiche che realizza sono una sublimazione del perpetuo ciclo di creazione e distruzione.
I suoi lavori spesso raffigurano bambini – piccoli uomini – di dimensioni gigantesche che giocano con spietata serietà  o campeggiano su scenari urbani ridotti ad ambientazioni giocattolo che fanno presagire scenari apocalittici. L'apocalisse, nella visione di Akira Zakamoto, ha, però, una connotazione positiva, poichà© rappresenta il punto di inizio di un nuovo mondo: nel gioco della vita creiamo il futuro, distruggendo il passato.
Queste opere sono un monito a ricordarsi che il futuro appartiene ai bambini, loro raccoglieranno il testimone facendosi carico del lascito dei loro predecessori, sono la speranza del mondo. I bambini non sono altro che piccoli uomini che devono fare esperienza del mondo e la loro grandezza è proporzionata al loro potenziale: la purezza, lo stupore, la tenacia, la gioia, l'incoscienza, la crudeltà , che crescendo si smorzano di intensità , in un bambino conservano intatta la loro forza dirompente di sovvertire le regole, stravolgere tutto, distruggere e ricominciare.
Il grande formato delle tele si fa veicolo amplificato del messaggio insito nelle immagini, è proiezione dell'importanza che dovremmo porre nel considerarli, ma anche del potere che possiedono, mentre il punto di fuoco abbassato o rialzato ci invita a porci in una diversa prospettiva.
Il realismo della pittura di Zakamoto, in cui convivono la lezione figurativa americana di Alex Kats con quella Pop di Takashi Murakami, trascrive dalla dimensione cinematografica l'immediatezza espressiva delineando perfettamente corpi e oggetti, anche un semplice giocattolo si trasforma in un'icona monumentale della cultura e della società  contemporanea. Questa verosimiglianza scuote le coscienze offrendo una lente privilegiata attraverso la quale percepire il mondo e auspicare un avvenire migliore.
Marcella Magaletti

Akira Zakamoto compone istantanee stupite e silenziose, dove i protagonisti sono i bambini che osservano ciò che gli uomini hanno fatto: giocano alla guerra, si dilettano col massacro. Ecco allora tra la realtà  fotografica, il manga giapponese e l'orrore quotidiano mettere in scena operazioni belliche che inficeranno l'infanzia innocente costretta suo malgrado a seguire da spettatore inerme ciò che accade. Ai giochi si sostituiscono le macerie, alla meraviglia e alle risate l'orrore, chiusi dentro scatole tappezzate senza colori e senza luce, i bambini ci guardano e chiedono silenti il perchà© di tanta violenza.
Massimiliano Sabbion

Akira Zakamoto a mio avviso ha tutte le carte in regola per considerarsi un artista giapponese, per un motivo molto semplice: quando era bambino aveva una sana mania, quella di dedicarsi in ogni momento della giornata alla lettura dei fumetti giapponesi. Questa per lui è stata inizialmente l'esperienza del bambino che legge storie di eroi del tutto surreali, delle metafore eccitanti. Giunto poi il momento della scelta professionale, decide di diventare pittore, e diventa pittore per elezione non a livello di freddezza professionale. Non si inciampa in nessuna accademia di belle arti, ma studia comunicazione, ovvero il rapporto tra la pubblicità  e l'oggetto. Nel momento in cui lascia anche questo mestiere assolutamente persuasivo, Zakamoto non dimentica la sua infanzia, la sua fanciullezza legata ai manga, i fumetti giapponesi che per Hugo Pratt erano immagini letterarie.
Zakamoto è un pittore che deve tutto al passato, al sogno, ma ha avuto anche una lezione da questa letteratura disegnata: il senso dei guerrieri e dell'eroismo, che rivisita in chiave di giustizia e di sdegno. Le sue sono composizioni tutt'altro che elegiache di cui va apprezzata la solidità  interiore di Zakamoto, questa gli consente di considerare uomini e cose nella loro condizione di verità . Per il nostro pittore la rappresentazione dell'uragano è un turbamento dello spirito? Al contrario, ne sa cogliere la metafora come un messaggio ammonitore. La pittura per lui è il mezzo suadente e colto come comunicazione della quotidiana mistificazione della realtà . La propria solidità  interiore in questo caso non gli permette di rimanere inghiottito nel mare delle menzogne. Costantemente impegnato in tematiche inquietanti del nostro tempo la sua coscienza attenta di artista e guidata verso un percorso di rappresentazioni impietose. Le sue sono immagini espresse in chiave spesso ironica, divertita e divertente, in altre occasioni anche allucinanti. In ogni evento tematico Akira Zakamoto si attiene alla sua professione di pittore e di cronista del proprio tempo. In effetti il suo racconto è quello di un apocalisse che è funzionale per togliere il velo al presente e poter poi costruire un nuovo futuro in una nuova rivelazione in chiave paradisiaca. Non sarebbe una forzatura dichiarare che Akira Zakamoto sia l'erede del realismo socialista che si muove in Italia in un arco di tempo che va dal 1946 al 1970 di artisti già  in quel periodo sulla cresta dell'onda della critica e del mercato e che nel contempo riuscivano ad eseguire delle allegorie sulla lotta di classe e sulla lotta giovanile del '68 di giovani borghesi diventati anti borghesi. Akira Zakamoto è invece un pittore di talento tutt'altro che realista quanto mai surreale. E' un inventore suadente di metafore capace di conciliare l'eleganza delle forme con il contenuto spesso e volentieri inquietante.
L'esecuzione pittorica è sempre ineccepibile, Zakamoto gioca sulle tonalità , sui contrappunti cromatici, sulla delicatezza dei passaggi e per lui dipingere è come per il compositore musicale creare armonia e non disarmonia, la disarmonia è ciò che lui nota all'esterno del mondo, qui sta la sua denuncia verificabile nei suoi lavori recenti, nel ciclo del 2015 assolutamente importante sulla scena pittorica italiana che oggi non ci regala contenuti ma costrutti estetici per le case che necessitano di status symbol economici. In una dettagliata serie di quadri surreali Zakamoto denuncia quanto sia martoriato il nostro pianeta, affronta il tema in una rappresentazione visionaria di un umanità  senza approdi e metaforica sul piano della distruzione ecologica. In questo caso a Zakamoto viene a pennello la situazione creatasi nelle città  di Venezia e di Marghera con il seguito dell'intervento della magistratura. In questi lavori in cui riesce a portare Venezia a livello simbolico per la distruzione e i misfatti ambientali globali, Zakamoto è così raffinato da gestire la città  lagunare a livello di tasselli che ci rendono sdegnati per la nostra e la vostra indifferenza. Ciò che stupisce è avere ancora oggi un pittore che opera su dipinti per dare un messaggio e nel contempo è anche uno scrittore che passa il suo tempo in viaggio a scrivere. L'autore privilegia visioni telluriche e, nel contempo, fatto curioso, riprende Venezia con la tranquillità  espressiva di un pittore di tradizione paesaggistica oppure di architettura urbana, è qui gioca in modo colto e subdolo come tutti gli intellettuali del pennello che non fanno sconti quando affondano la loro lama in fastidiose verità . I suoi quadri non sono fastidiosi a livello visivo, in apparenza sono piacevoli, di decoro, ma la differenza che passa tra Zakamoto e un artista dell'arte povera del 68, è che gli artisti del 68 utilizzavano materiali curiosi, inusuali come la merda di Manzoni e la borghesia li strapagava anche se i lavori erano stati pensati per non poter essere vendut, mentre Zakamoto fa un altro gioco, molto più raffinato, offre alla borghesia colta, partecipe, il suo messaggio che appeso alle pareti può essere piacevolmente decorativo e osservato a fondo può donare coscienza non sociale ma universale. Il romanziere francese Andrè Gide avrebbe definito Zakamoto "un avertisseur", i suoi lavori infatti sono un costante avvertimento.
Paolo Levi

Akira Zakamoto. Polo industriale di Porto Marghera. àˆ emblematico lo scenario individuato dal pittore torinese per le tele realizzate per questa mostra. Una scelta non casuale – pregnante di significati profondi – che lascia ben poco spazio a dubbi interpretativi. La nascita e lo sviluppo di Porto Marghera risale al 1917, quando l'imprenditore veneziano Volpi ottenne dal ministero dei lavori pubblici la gestione finanziaria del progetto per la realizzazione del porto industriale. Nel giro di cinquant'anni la zona industriale si triplica, e da una produzione inerente la cantieristica navale diventa centro propulsore del settore petrolchimico. Il boom economico incrementa la produzione, e insieme a essa si moltiplicano i problemi relativi all'inquinamento atmosferico, delle acque lagunari e le serie e documentate conseguenze sulla salute dei lavoratori. Teatro di grandi fusioni aziendali, battaglie e contestazioni sindacali, con la crisi del settore petrolchimico Marghera inizia a ripiegarsi nuovamente su se stessa. Progressivamente le fabbriche vengono abbandonate, in attesa di un progetto di riqualificazione e bonifica della zona. Ed è proprio in questo momento che, sotto cieli plumbei saturi di inquinamento e dietro minacciose colonne di fumo, arrivano a grandi passi i bambini di Zakamoto.
Dimentichiamoci gli amorini biondi dell'iconografia del passato, perchà© quelli di Akira non sono bambini qualsiasi. Sono giganti, e non solo nella statura, che con il loro sguardo ora severo ora minaccioso, distruggono ciminiere e scheletri di fabbriche. E, guardandoci diritti in faccia, ci accusano. Difficile girarsi dall'altra parte per evitare i loro occhi, perchà© di fronte a loro siamo tutti responsabili dello scempio ambientale e sociale che nel corso di un secolo siamo riusciti a creare. Sono interessanti, quanto inedite, le modalità  iconografiche scelte dall'artista per affrontare la tematica del lavoro. In queste pagine pittoriche quest'ultimo è evocato esclusivamente dagli edifici che nel corso di un secolo lo hanno ospitato, così come la presenza degli operai è sottintesa ma mai esplicitata. Anche in questo contesto Zakamoto si conferma come un pittore realista che tuttavia non rispetta volutamente i canoni di questo genere di pittura. Akira non urla apertamente la sua denuncia nei confronti della società  contemporanea, ma la sublima e, sublimandola, indirettamente la condanna. Sono opere di forte e immediato impatto visivo, in cui i toni scuri e scabri giocano di felice contrappunto cromatico con i rossi delle magliette dei bambini, che richiamano significativamente le lamiere delle fabbriche. Osservando queste sue tele ci accorgiamo che tutto è esattamente al posto giusto, non c'è nulla di troppo o che disturbi la vista, nessun descrittivismo superfluo volto solo ad ammiccare l'osservatore e riempire lo spazio. Come sempre l'artista riesce a dosare con sapienza le assenze e le presenze, caricandole di significato. Ma proviamo ora a cambiare punto di vista e guardiamo queste composizioni pittoriche da un'angolazione diversa. Ci accorgiamo che nulla in realtà  è completamente concluso e che esiste uno spiraglio di speranza: i cieli grevi e cinerei, lasciano spazio a scampoli di azzurro che aprono la visuale su un futuro che può e deve essere diverso.
Se Zakamoto non avesse voluto concedere, e concederci, una possibilità  di riscatto, avrebbe lasciato che a parlare fossero solo i profili degli edifici industriali. Ma qui i veri protagonisti sono i bambini che, per assunto, sono la promessa e la speranza del futuro. Sono loro che distruggendo senza pietà  il passato ci offrono la possibilità  di costruire le fondamenta per un domani diverso e migliore. Dunque Porto Marghera altro non è che l'emblema di un secolo che ha cambiato radicalmente l'economia e la società , calpestando spesso i diritti dell'uomo e le singole individualità . Il bambino che ci guarda con un sorriso beffardo nell'opera La fine del lavoro, è in realtà  il punto di partenza da cui ricominciare. Perchà© ogni fine presuppone sempre un nuovo inizio.
Stefania Bison

Il mondo visto da Akira Zakamoto Nei soli artisti si sa che la vita adulta è la continuazione naturale dell'infanzia, per questo si dice che gli artisti sono grandi fanciulli. Alberto Savinio Del primo incontro con Akira Zakamoto ricordo senza dubbio il mio malcelato tentativo di scorgere sul suo volto qualche reminiscenza di fisionomia orientale: nulla di fatto, Akira non è giapponese, nè ha nel suo albero genealogico antenati provenienti dalla terra del Sol levante. Leggendo poi la sua biografia, che lo racconta rapito dagli extraterrestri, mi ero chiesta con una certa curiosità  che tipo di pittura potesse fare. Mi capita spesso di cercare di intuire dopo aver conosciuto un artista, il suo tipo di pittura. Bambini, tanti, colti nelle loro espressioni più naturali, ma anche e soprattutto in quelle più incredibili. No, non mi sarei aspettata che Akira dipingesse, non solo, ma principalmente, bambini. L'infanzia vive dentro e accanto a ognuno di noi, nonostante sia una dimensione, l'unica, dalla quale siamo tutti, irrimediabilmente, esclusi. àˆ un universo multiforme, affascinante, ma al tempo stesso ignoto e misterioso.
Sollecita da secoli l'attenzione e la creatività  di filosofi, poeti, scrittori e artisti, è un viaggio a rebours a cui pochi hanno saputo resistere, e che ognuno di noi, in forme diverse, almeno una volta nella vita ha tentato di intraprendere. Forse perchà© rappresenta, al tempo stesso, il nostro passato e un nostro possibile futuro. Affascinante, senza dubbio. Inquietante, senza dubbio. La realtà  è che l'infanzia guardata da lontano si tinge sempre di un sentimento di intensa malinconia, perchà© è il mondo perduto, e rappresenta soprattutto un modo di sentire, vedere, toccare, unico e irripetibile, di cui l'età  adulta ha perduto la diretta conoscenza. Dei bambini invidiamo lo stupore con cui guardano le cose, con cui cercano di indagare il mistero della vita. Ingenui? No, tutt'altro. E le tele di Zakamoto ce lo dimostrano. Dimentichiamoci le teste bionde e le forme deliziose degli amorini. I bambini di Akira sono dei veri e propri giganti – non solo nella statura – depositari e portatori di una saggezza antica e al tempo stesso ancora in divenire. Ed ecco dunque che noi adulti siamo i nani sulle spalle di questi bambini-giganti, e arrampicati su di loro abbiamo la possibilità  di guardare oltre. Oltre il visibile, oltre il tangibile. Oltre tutto ciò che ci lega, e obbliga, al presente.
Non lasciamoci tuttavia ingannare dalle tele di Zakamoto. Perchà© a dispetto della loro essenzialità  costruttiva sono portatrici di messaggi non immediatamente, e facilmente, decodificabili. E per essenzialità  intendo l'equilibrio pulito e lineare che domina ogni sua pagina pittorica. Osservando una sua opera non tardiamo ad accorgerci che tutto è esattamente al posto giusto, che non c'è nulla di troppo o che disturbi la vista, non esistono descrittivismi inutili e superflui volti solo a riempire lo spazio. Assenze e presenze sono dosate sapientemente dalla mano di un artista a cui, a mio avviso, non interessa piacere a tutti i costi. Akira ha assimilato la storia dell'arte del Novecento e contemporaneamente sembra averne fatto tabula rasa. Le sue opere non hanno un passato – e dunque è inutile cercare citazioni e collegamenti con esso – ma hanno un presente che vive e grida prepotente in ogni singolo dettaglio. Consideriamo dunque Zakamoto come un pittore realista dei nostri tempi, che non urla la sua denuncia nei confronti della società  contemporanea, ma la sublima e, sublimandola, indirettamente la condanna. Sovverte il mondo che conosciamo, cambiando i rapporti di forza tra le cose: ci porta per mano in un mondo lillipuziano in cui le case diventano improvvisamente piccole e i bambini dei giganti che, non casualmente, quasi sempre ci voltano le spalle. Ci porta su una spiaggia in cui un gruppo di donne mature sono sovrastate dalla figura gigante di una bambina vestita con la bandiera cinese che emerge dal mare e corre veloce verso la riva: ecco la sublimazione della realtà , che assume tuttavia i contorni di un monito e di un avvertimento su quello che il futuro ci potrà  riservare. Ma il suo è anche il mondo in cui Agnese magicamente si perde fra le nuvole, in cui Matteo – fanciullino ed eroe allo stesso tempo – è un Superman che si riposa dalle fatiche di tenerci sulle spalle.
Il suo è il mondo che possiamo vedere attraverso lo sguardo del bambino che speranzoso, e con il sacchetto della merenda in mano, inizia il suo primo giorno nel futuro. Ed è un mondo che, nonostante tutto, ci riempie di speranza e ci piace.
Stefania Bison

Verrebbe spontaneo definire di taglio concettuale queste ricerche d'ambito figurativo. Ma, a mio parere, è sin troppo facile: Zakamoto è, soprattutto, pittore di visioni elaborate a tavolino, che riportano un messaggio ben mirato. Ci si avvede subito che in ogni contesto di espressività  narrativa, egli tende alla perfettibilità  dell'esecuzione, nulla concedendo all'errore, sia dal punto di vista formale che della stesura cromatica – cose che in pittura sostituiscono, nella più assoluta emblematicità , la parola. Sono queste certamente situazioni immaginifiche perfettamente consone alla nostra epoca, dove tutto è costantemente rimesso in gioco, stravolgendo le premesse di un futuro che, in questi dipinti talentuosi, è rappresentato come trepidante speranza nei tratti di molti bambini. Perchà© il presente appare qui senza passato, presentato da personaggi la cui storia ha radici incerte, nati spesso nei fumetti, nelle pagine della cronaca, o nella narrativa popolare; effigiati in modo impeccabile, sono sempre rivisitati e aggiornati nella loro carica leggendaria con intenzioni etiche, sostenuti da didascalie che ne sono solo di parziale rivelazione.
àˆ in questo contesto che agisce la concettualità  di Zakamoto: un artista che, a suo modo, va considerato un neoromantico. La sua narrazione del tutto originale affronta le tematiche del macrocosmo sociale contemporaneo con fredda determinazione, con raffinatezza esecutiva, tramite un segno di esecutivo ineccepibile; in queste pagine pittoriche la scelta e la stesura dei colori elegantemente atonali sono giocate in un sapiente dialogo contrappuntistico, in sonorità  visive portatrici di incertezze Le sue radici museali sono quelle della Pop Art italiana la cosiddetta Scuola Romana del secondo Novecento, dove Zakamoto conduce comunque un viaggio del tutto libero e personale, privo di paletti intellettuali prefissati, tendendo, pur nel contesto immaginifico che si è imposto, alla più assoluta oggettività .
Tuttavia, con questo suo modo di procedere, sarebbe sbagliato considerarlo un artista freddo, anzi: guidato dalla sua poetica, egli riesce a esplorare i suoi spazi interiori senza cadere nell'utopia, ma consegnando messaggi disillusi e interrogazioni puntuali, dove le apparenze visive del suo e del nostro vivere si coniugano con la concretezza del colore.
Paolo Levi

La pittura è piena di "bambini" dalla notte dei tempi. Basta voltare il capo verso la storia per ricordare i capolavori di Michelangelo, Botticelli, Donatello, Masaccio, Giotto, Piero Della Francesca, Bellini. Tutti loro hanno in curriculum un'opera dal titolo: Madonna col bambino e da ciascuna di queste opere emerge un talento, una tecnica, un mestiere, una sensibilità  per la pittura intesa come eccellenza dell'espressione culturale, semplicemente irraggiungibili per i più. E' un tema già  visto quello che affronta Luca Motolese in arte Akira Zakamoto, classe 1974.
E' un tema affrontato, visivamente, dalla pittura degli ultimi 800 anni e questo bravo pittore torinese farà  una gran fatica ad implementarlo ulteriormente proprio in virtù dei colossi con i quali, la storia, impone lui di confrontarsi. Ha una bella mano, sa certamente dipingere. I richiami alla paletta vistosa e accesa di Wesselmann sono persino interessanti, in alcune tele. I suoi lavori hanno certamente un chà© di decorativo che non disturba, anzi soddisfa ma, i nomi precedentemente citati non lasciano lui alcuno scampo nel territorio che si è prefisso di esplorare. Non potrà  mai, neanche da lontano, competere con quel misterioso fanciullo che Claude Monet dipinge al fianco della sua Donna con il parasole e, forse, il bello di Zakamoto è non averne alcuna pretesa. Il suo lavoro è molto più semplice di così. Si prefigge scopi molto più terreni, vuole semplicemente rappresentare, in un tempo che chiameremo "la frontiera oscura", il recupero di quella gioia, infantile se vogliamo ma pure benedetta, che alberga ormai nella sola spensierata fanciullezza.
Nella frontiera oscura, nel nostro tempo, essere felici di ciò che abbiamo, accettarlo e goderlo a pieno ogni giorno, è divenuto un concetto astratto, più di un dipinto di Kandinskij il quale, credo, non ne sarebbe stato affatto fiero. Sognare, piangere, essere semplicemente noi stessi, affascinarci delle cose della vita, anche di quelle piccole, è divenuta una debolezza a meno di non dare a questi componenti dell'umanità  un aspetto che li giustifichi: il volto di un bambino.
Non si parla affatto di sindrome di Peter Pan (che per altro non era affatto un bravo bambino), non si parla affatto di non crescere per scappare dalle responsabilità  che la vita ci propone crescendo. Dalla sindrome di Peter Pan è afflitta una generazione intera, quella dei trentenni e delle trentenni, in possesso di tutto e allo stesso tempo di nulla, incapaci di assumersi responsabilità  di qualsiasi natura, incapaci di confrontarsi con il rispetto dei valori più basilari, incapaci di crescere fuori dalla campana di vetro, incapaci di rapporti se non vissuti attraverso i filtri delle tecnologie telematiche, incapaci di darsi delle priorità , delle regole che valga la pena di rispettare. Figli di una rivoluzione giusta nei motivi, sbagliata e distruttiva nei risultati. Figli di Hemingway e delle sue massime, origine vera della bit generation (volutamente minuscola nelle iniziali): <>. Di questo modo di pensare la frontiera oscura è madre e allo stesso tempo culla ideale. Ma i quadri di Zakamoto non ne fanno parte, per fortuna. Anzi, fotografano una speranza che matura sin dall'inizio del "percorso", nell'educazione che diamo a chi verrà  dopo di noi. Registrano il desiderio di ritrovare alcuni valori attraverso i soggetti ai quali trasferirli. Uno è quello della famiglia che genera figli, trasferisce loro dei valori, insegna loro a crescere e diventare uomini e donne capaci di esistere e risplendere nel futuro senza paura di vivere pur sapendo che vivere è anche un impegno, non solo un privilegio.
Pur sapendo che Hemingway scriveva certamente molto bene ma, che della morale non aveva davvero capito niente! Bambini che generano il mondo che verrà  e lo formeranno a loro immagine e somiglianza sulla base di quello che viene loro insegnato oggi. La frontiera oscura ha i minuti contati.. Speriamo tu abbia ragione Zak.
Vincenzo Dalle Luche

Grandi e profondi occhioni blu degli eroi del futuro, un futuro che di questi tempi ci fa tanta paura. Giorni terribili che osserviamo increduli, che cerchiamo di allontanare dalle nostre menti per sperare in un futuro migliore. Paura che si affievolisce pian piano dietro ai colori, stesi con sapiente maestria ed intensità , dalla mano sicura ed essenziale di questo artista, che, mai come oggi, sembra sventolare la bandiera della serenità , della sicurezza nel domani, perchà© certamente tutto sarà  migliore in mano a queste piccole ma grandi creature. I volti di angeli terreni, che guardano ad un Paradiso futuro. E se come si dice "i bambini sono il termometro dei giorni nostri", osservando i suoi lavori, non si può non sperare in giorni migliori, giorni in cui anche i grandi potranno perdersi nel cielo azzurro in cui si dissolvono bolle di sapone, mongolfiere e stelle splendenti.
Le forme sono essenziali, chiare e delineate, i colori intensi, materici. Non esistono sfumature di colore, ma la profondità  è data dall'uso di diverse tonalità  che disegnano i volti quasi palpabili di questi piccoli uomini e piccole donne. Il volto è un catalizzatore di emozioni, occupa prevalentemente lo spazio della tela lasciando spazio talvolta a corpicini da supereroi scorciati dall'alto, quasi a spiccare il volo, o a richiami ad architetture cittadine o a mondi ultraterreni. Lo sguardo è sempre, o quasi, rivolto verso l'alto, ma sempre incontra il nostro, quasi a chiederci di seguirli, un richiamo a cui è difficile rispondere no. Quest'artista è riuscito a spingere oltre il suo sguardo, oltre la normalità , oltre la mediocrità , ad abbassare la sua statura per arrivare all'altezza degli occhi dei suoi bambini, per vedere dentro ai loro occhi e con i loro occhi, come può apparire il Nuovo Mondo. Una bella fiaba che ci fa sognare, con la speranza che il sogno si possa poi avverare.
Laura Colombini

Rodari sosteneva che ‘sbagliando s'inventa', che dall'errore possono nascere percorsi fantastici e creativi: tutto sta nell'assecondare i propri errori, nell'attribuire ad essi un significato ed interpretarne il valore. Il percorso creativo di Akira Zakamoto sembra voler esplicitare questo concetto, sembra porlo come fondamento della propria motivazione creativa, della propria inquieta sperimentazione.
L'errore, Zakamoto lo racchiude nel nome, che in giapponese è un nome impossibile, sbagliato, che omaggia l'Oriente, lo richiama, lo racchiude in un qual modo, e rende l'artista riconoscibile: gli crea un'identità  di cui è difficile identificare i contorni, data la sua vasta e poliedrica produzione creativa, che eppure appare nitida e chiara come una fiaba per bambini, immediatamente intuibile nella propria sostanza comunicativa. Si chiede spesso, ai bambini: ‘ma dove hai la testa?': il volto, gli occhi, il naso, il sorriso, sembrano tutti scivolati, atterrati nelle tele di Zakamoto, quadri specchi di un artista che ci sembra di immaginare intento a toccarsi il collo mentre dipinge, per essere sicuro che la testa sia ancora al suo posto. I suoi bambini angeli, supereroi, creatori di mondi, metafore di un mondo possibile, sono bambini con la testa sul collo, sono volti di bambini che ci guidano in un mondo nuovo dove una poetica che vuole preludere ad un mondo migliore non solo è possibile, ma è addirittura reale.
In questo mondo Akira Zakamoto si muove disinvolto in loro compagnia, rinasce, riconosce ciò che è rimasto di un tempo che secondo la sua poetica è eterno. Sembra citare una frase attribuita dalla tradizione a Dante Alighieri, e ricordarci che del Paradiso ci sono rimasti il cielo, le stelle e i bambini, e nel farlo concede ai suoi bambini un ruolo privilegiato di narr-attori, ne evidenzia, di volta in volta, lo sguardo od i gesti, concentrandosi su particolari che lo attraggono più di altri, che meglio di altri sembrano svelargli un segreto. Come ne ‘la passeggiata di un distratto' di Rodari, il fanciullino di Zakamoto si smarrisce, poco a poco, nello sguardo dei suoi personaggi, che costituisce il fil rouge di tutta la sua poetica.
I ritratti, reali e reinterpretati, sembrano contenere riferimenti alla pop art, ai manga, alla sua formazione grafica, eppure tutto questo viene riletto alla luce di contenuti originali, in un caleidoscopio colorato costituito da parti armoniche che risuonano insieme ai nostri occhi. Al termine del percorso di un'esposizione di Zakamoto, tutto questo appare chiaro, come se avessimo letto un testo ricco di contenuti tradotto in termini semplici ed essenziali. Come se, attendendo sulla soglia il pittore al termine di una passeggiata tra i suoi significati, a noi fossero rimasti in mano -donati dalle tele- dei pezzi importanti per comprenderlo. Nel ritrovarlo, non potremo fare altro che agire come la mamma del distratto di Rodari, che, nel ricomporre il figlio, lo rassicura. A noi non resterà  che dire, con un sorriso, ‘Sì, Zakamoto, sei stato proprio bravo'.
Francesca Bogliolo

Zakamoto come Cassiopea dona il suo aiuto incondizionato. I bambini sono lo specchio dell'innocenza, l'incarnazione più pura del bene, il sentiero da seguire per entrare nel Regno dei Cieli e condizione fondamentale per entrare nel Regno di Luca Motolese alias Akira Zakamoto. Sovente lo sguardo del fanciullo, la cui sublime fantasia è in grado di spalancare le porte dei sogni, è stato rappresentato come l'antitesi tra il mondo degli adulti, costellato di incubi e di contraddizioni.
I bambini sono una miniera inesauribile di trovate, di soluzioni ardite, di impreviste conclusioni e Zakamoto si dimostra ben consapevole di questa ricchezza e la sfrutta pienamente. La sua fiducia esistenziale e pittorica pare riposta nei loro paffuti volti dagli occhi brillanti di stupore ed innocenza che prima fotografa e poi riproduce con il pennello. Le composizioni con soggetti adulti sono sporadiche, tuttavia le tele delle "Stanze dorate" raffigurano suggestivi mezzi busti femminili con la testa reclinata vestite con abiti-galassie. Inizialmente nei quadri erano preponderanti le tonalità  cromatiche del rosso, giallo, grigio e nero, ma in seguito la tavolozza si è arricchita di toni arcobaleno stesi e disfatti in un impasto più corposo e materico. Nelle ultime opere si avverte che l'artista sta affrontando in modo approfondito lo studio della tecnica: inizialmente il colore puro è steso in campiture piatte ed uniformi, poi gradualmente si disfa in misture ed ombre cangianti di grande gestualità  pittorica.
Lo spazio della tela è quasi unicamente occupato da visi e piccoli corpi rimpiccioliti visti dall'alto. Solitamente lo sfondo è monocromo: cieli neri, celesti, rosa, viola, rossi, arancioni, gialli e verdi, ma compaiono anche righe convergenti verso un punto. Altre volte sono riconoscibili panoramiche di città , galassie con pianeti, steroidi in esplosione, stelline stilizzate, dischi volanti che proiettano fasci di luce, enormi numeri e frasi. Si ravvisano anche brand di bevande americane quali la Coca Cola, Schweeps e il pupazzo Miquelito dello spot pubblicitario della caffettiera. Da questa scelta si evince una latente critica al consumismo ed alla globalizzazione che la società  americana impone. Un'altra problematica si cela dietro il progetto pittorico riguardante il "Ritalin", uno psicofarmaco sedativo che viene somministrato dai genitori ai figli considerati ipercinetici. Nelle serie di dipinti intitolati "Portatori del futuro" e "Creatori di mondi" compaiono volti di bambini carichi di forza e vitalità  che con aria compiaciuta ci mostrano giochi magici. Tra le loro mani può comparire un globo terrestre per palla, o un pianeta in nuce come biglia, ma anche una bacchetta magica a forma di stella attraverso la quale attentamente ci scrutano. Inoltre basta solo un loro alito a trasformare delle bolle di sapone lievi ed evanescenti in pianeti e stelle che con un annaffiatoio cosmico abbeverano d'energia. Attraverso un semplice respiro, sono in grado di dar vita alla loro immaginazione senza divieti alcuni e forgiare a proprio piacimento un astro alternativo alla ormai corrotta Terra degli adulti. Dall'esasperazione della parte profondamente anarchica e guerriera che esiste in ogni bambino, anche nel più buono, che giorno dopo giorno lotta con le unghie e con i denti per affermare la propria libertà  d'espressione nasce un'altra serie d'opere detta "Superoes".
L'ispirazione prende avvio dall'idea del "Superuomo" e dall'estenuante lotta contro le "regole" che la cultura con violenza impone ai piccoli sotto forma di carezze e schiaffi. àˆ una battaglia silenziosa, la rappresentazione di un inconscio selvaggio in cui i bambini scelgono di non piegarsi ad una realtà  artificiale, edulcorata ed ai loro occhi perversa: un atto di protesta contro il mondo dei "grandi". Si tratta sempre di un sogno, in fondo: il sogno di un Altrove che non c'è, non poi così diverso da quell'isola dove Peter Pan si rifugia. Con irruenti e caldi colori, Zakamoto combatte il degrado del reale e crea piccoli supereroi che si ergono salvatori del pianeta e volano sopra le città . Per incantesimo, i loro capelli diventano onde, fiamme e coriandoli. Tra accennati sorrisi e occhi cangianti compaiono pure supereroi dei fumetti americani quali Batman, l'Uomo Ragno, Capitan America, Ironman Thor, Fiamma… e continenti. Invece, la serie di dipinti dedicata agli "Angeli" pone in primo piano fanciulli dalla grossa testa ed il corpo scorciato che volano verso l'alto ed indossano occhiali sulle cui lenti si riflettono le stelle. Inconsapevoli della propria potenza, tramite la loro pura innocenza ci riscattano dal grigiore quotidiano mostrandoci una strada diversa.
L'artista non può far altro che inginocchiarsi ed osservare l'avvento del nuovo mondo e guardare esausto i volti dei poeti del futuro. àˆ affascinante scoprire come i piccoli vedano le cose "dal dritto e dal rovescio" e possiedano la volontà  di superare le apparenze senza timore, anzi lo sconosciuto si esplora e si prova! Come nel racconto di Gianni Rodari "La torta in cielo" due simpatici bimbi sconfiggono le paure degli adulti e gustano una meravigliosa torta scesa dal cielo creduta da tutti un disco volante o chissà  quale altra catastrofe. Nei quadri denominati "Giro Giro Tondo cambia il mondo" ed "Avvistamenti", tra lo sgomento misto a divertimento, il bambino rappresenta il futuro ed osserva deflagrare la Terra in mille frammenti di luce. Ed ecco sbocciare il cambiamento: la fine non è altro che l'inizio di una nuova vita, dalle schegge colorate si ricostruiranno mondi nuovi ed incontaminati lontani dalla normalità  intesa come schema rigido e modello comportamentale comune. Attraverso il progetto "FiloDiFusione", Zakamoto affida alla "Bandiera del futuro" il messaggio di cambiamento che gli era stato trasmesso dagli esseri extraterrestri che lo rapirono: "Stiamo per assistere alla nascita di una nuova dimensione creata dall'amore, dal sogno, dalla magia e dalla follia". Il vessillo con il dolce viso dal lungimirante sguardo sta girando tutto il mondo e per tre giorni sventola sui balconi di coloro che la richiedono.
In tal maniera l'opera d'arte si avvicina alle persone e per mezzo del costo di spedizione si finanzierà  una richiesta di aiuto. Zakamoto come Cassiopea dona il suo aiuto incondizionato, saggiamente ci indica la strada della salvezza attraverso le immagini. Invece i bambini dipinti dall'artista sono come Momo e saranno coloro che ci insegneranno ad assaporare le piccole gioie quotidiane. Una tartaruga speciale di nome Cassiopea sapeva "parlare", non con la voce, ma facendo comparire lettere luminose sul suo carapace. Questa testuggine particolare conduce Momo da Mastro Hora. il governatore del tempo, per sconfiggere i perfidi Signori Grigi che rubarono il tempo libero ai cittadini facendo loro credere di poterlo investire meglio. "Le persone, così, iniziano a fare tutto di corsa, con la fretta perchà© hanno tante cose da fare e da finire senza gustare e assaporare più nulla della loro vita, vivono ormai solo con lo scopo di fare le cose nel minor tempo possibile con l'illusione di risparmiare tempo, in realtà  stanno SPRECANDO tutto il tempo messo a loro disposizione…. senza pensare che è il tempo, la nostra unica vera ricchezza. Perchà© il tempo è la vita. E la vita dimora nel cuore." (Michael Ende, Momo, 1973) Attraverso un simbolismo fantastico e immaginario, sia le tele di Akira Zakamoto che il romanzo, sono una feroce critica al consumismo e alla frenesia della vita moderna, che nel suo progresso tecnologico e produttivo perde completamente di vista l'obiettivo della felicità  delle persone e della qualità  di vita.
Osservare i dipinti di Akira Zakamoto è come leggere il romanzo fantastico di Michael Ende, è come guardarsi allo specchio e scoprirsi incapaci di sognare; è come spiare attraverso una sfera di cristallo e scorgere un futuro ben poco promettente. Ciò nonostante è sempre presente la speranza di cambiare.
Elisa Basso

"Un ragazzo sale su di un albero, si arrampica tra i rami, passa da una pianta all'altra, decide che non scenderà  mai più". Il mondo letterario creato da Italo Calvino con "Il Barone Rampante" è accostabile a quello artistico di Akira Zakamoto alias Luca Motolese. Questo fanciullo che si rifugia sugli alberi, diventa un eroe della disobbedienza, un'allegoria del poeta e del suo modo sospeso di essere al mondo.
Analogamente, Zakamoto, racconta di bambini che hanno già  sollevato i piedini dal suolo, per paura di essere contaminati dalla realtà  e come angeli si lasciano trasportare dall'alito della vita che li spinge con potenza verso l'universo. Nelle "Città  invisibili", Calvino narra di un viaggiatore visionario che descrive città  immaginarie fuori dal tempo e dallo spazio e Zakamoto li dipinge su tele quadrate. Lo scrittore durante una conferenza tenuta a New York (1983), parlò con insistenza della distruzione dell'ambiente naturale e della fragilità  dei grandi sistemi tecnologici che possono produrre guasti a catena, paralizzando metropoli intere; parallelamente Zakamoto, attraverso i suoi ritratti fugge dalla catastrofe incombente e sogna.
I fanciulli nati dalla mano dell'artista, attraverso la loro creatività , dimenticano le quotidiane ingiustizie, trovano la forza di ricominciare e riscattano la loro e la nostra condizione, trasformandosi persino in supereroi, esploratori, semidei e creatori di mondi. Il loro sguardo è carismatico, è pura potenza, vitalità , non ha nulla di gracile, è forza mista a tenerezza. I piccoli messaggeri possiedono un'espressività  magnetica e profetica, ci comunicano la loro incomprensibilità  del modo di vivere degli adulti. Solo loro potranno redimere l'umanità  dagli errori commessi e per questo motivo tengono in pugno il globo terrestre ed indifferenti giocano con i pianeti e le stelle. Non si tratta di un'aspra critica alla società , quasi piuttosto di una cinica ed ironica, forse disperata presa d'atto dell'omologazione del reale e dell'impossibilità  di un cambiamento da parte degli adulti. I ritratti di Zakamoto ci permettono di riflettere sul mondo in cui viviamo, sul nostro grigiore e sulla pesantezza di essere adulti, facendoci meditare su come eravamo, l'energia e voglia di vivere che possedevamo, come senza preoccupazioni potevamo volare leggeri sopra le città . Zakamoto fugge dal "qui ed ora" verso la rievocazione del mondo infantile, ma rimane radicato nel presente, chiamando a prendere coscienza di quello che accade ed a saper reagire. L'artista, per mezzo del progetto "Bandiera del futuro", vuole condividere questa speranza del cambiamento, con coloro che lo desiderano.
Ci auguriamo che il drappo partito dalla Bottega Indaco di Torino, oltrepassi le "Colonne d'Ercole" e arresti il suo percorso solo quando sarà  stremato e soddisfatto. Nella pittura di Zakamoto, tutto si ribalta e pare assurdo che il mondo infantile possa rieducare i grandi, ormai disorientati. "Solo a coloro che possiedono, con innocenza, il sorriso è dato di evocare l'utopia." (Sergio Moravia). Come Virgilio, Motolese è un'utopista e prevede l'arrivo di un misterioso fanciullo, puer che porterà  una nuova età  dell'oro; come Esiodo concepisce i suoi soggetti "come dèi che passavan la vita con l'animo sgombro da angosce, lontani, fuori dalle fatiche e dalla miseria; nà© la misera vecchiaia incombeva su loro […] tutte le cose belle essi avevano." (Le opere e i giorni) L'artista ci ammonisce a ritrovare il bimbo che è in noi ed a conservarlo integro nonostante il trascorrere degli anni e ravvisando quel filone letterario in cui gli autori desiderano ritornare fanciulli per dare libero corso alla loro immaginazione. Per esempio Swift nei "Viaggi di Gulliver" fa il resoconto di alcune viaggi presso strani popoli, coniugando fantasia e feroce critica alla società  del tempo, diventando pretesto per irridere il sistema giudiziario, i meccanismi del potere o la politica bellicista. Come Gulliver, i soggetti di Zakamoto, poichà© non riescono a supportare la realtà  di ingiustizie e limitazioni in cui vivono, si imbarcano su una nave della speranza e naufragano su terre sconosciute. L'artista come lo scrittore prova vergogna per le brutalità  commesse dal genere umano! Ugualmente, Zakamoto, con la propria poetica visionaria e per la capacità  di saper giocare anche in età  adulta, si ricollega al romanzo di Barrie: Peter Pan, il bambino volante che rifiuta di crescere, trascorrendo un'avventurosa infanzia senza fine sull'Isola che non c'è.
Dunque, i bambini sono l'essenza stessa dell'arte di Zakamoto, sono arte pura. Non dimentichiamo che l'arte è gioco, è fantasia, è capacità  di comunicare, sorprenderci, ingannarci e dunque l'artista non avrebbe potuto scegliere soggetto più adeguato per smuovere l'animo! Si può parlare di nostalgia di un'infanzia innocente e felice, di un Eden che sulla Terra non è più possibile creare, allora perchà© non realizzarlo altrove, per esempio con un colpo di pennello intinto di arcobaleno? Similmente a Matisse, ripropone una visione emozionale e vitalistica, in cui figure ed oggetti non vengono indagati, ma sentiti e accostati armoniosamente secondo rapporti cromatici: ogni cosa partecipa alla gioia di vivere. àˆ lontano dalla tragicità  e dalla disperazione del reale, benchà© ne sia consapevole, tuttavia trova riparo in una dimensione lirica e spensierata: è pura utopia, straniamento dal reale alla ricerca di mondi migliori, è luminoso sorriso. "Solo a coloro che possiedono, con innocenza, il sorriso è dato di evocare l'utopia." (Sergio Moravia) I quadri di Zakamoto hanno un aspetto festoso, ludico, tra l'onirico, allucinato e visionario; le sue vistose immagini si fissano nella mente in maniera indelebile, con sguardi ipnotici e accattivanti, attraggono l'attenzione dello spettatore come una grafica pubblicitaria riuscita. Il pittore stende il colore in modo carico e piatto, esaspera l'uso di toni puri e saturi come i fauves.
Ritrova il valore espressivo della cromia, rinunciando alla mistione e alle sfumature, cercando solo accostamenti funzionanti. Il suo eccesso cromatico innaturale e acido mi ricorda un pugno di caramelle o di coriandoli lasciati cadere su una tela. Rifiuta la spazialità  classica, le figure sono sospese nell'eternità  fantastica e metafisica. Attraverso il computer, semplifica e sintetizza le immagine fotografiche rievocando Andy Warhol e la scuola pop romana, in particolare Tano Festa, per la riproposizione di soggetti come immagini pubblicitarie. Si percepisce l'influenza stilistica della pop art, dei fumetti, dei cartoons tanto amati da Roy Lichtenstein, dal fascino del manga giapponese e azzarderei pure di Jacque Monory.
Nell'ultimo periodo, il suo modo stilistico si sta dirigendo verso una nuova gestualità  e matericità  più marcata, grazie anche all'introduzione di pastelli più morbidi. Come diceva Picasso: "Disegnare è un modo per scrivere storie." e Zakamoto ha proprio colto il significato di queste parole in quanto persino la sua biografia è una favola: inizia con "C'era una volta un bambino rapito dagli alieni" e si conclude con "i bambini angeli e supereroi riscoprirono l'essenza della vita, ridiedero voglia di vivere ai grandi e vissero tutti felici e contenti". Bisogna avere gli occhi dei bambini per cogliere l'essenza del mondo e la pittura di Zakamoto ci indicano che esistono mondi felici in cui l'umanità  sarà  redenta e felice, bisogna solo mantenere la loro visione anche crescendo. I bambini non dovrebbero mai andare a dormire; si svegliano più vecchi di un giorno." (James Matthew Barrie)
Elisa Basso

Il mondo di Akira Zakamoto nasce in seguito alla scomparsa del piccolo Akira, rapito da creature aliene dall’umanità, da qui la missione del bambino di svelare le verità conosciute nel suo lungo viaggio. Questo aneddoto, a metà tra suggestione onirica e genere manga, è il manifesto della personalità artistica di Zakamoto alias Luca Motolese. L’approccio gnoseologico all’arte attraverso la dimensione profetica diviene escamotage creativo per esplorare mondi, linguaggi figurativi e concetti, altrimenti confinati in un sentire convenzionale e limitativo. Tale sdoppiamento biografico, inoltre, consente un’esistenza meramente artistica, passe-partout verso una dimensione nuova, rivelata dalla sensibilità autentica di un bambino. In questi termini il tema del bambino diviene cruciale nella poetica di Zakamoto/Motolese, individuando una sorta di pedagogia à l’envers, ovvero un’educazione guidata dalla forza inesauribile di piccoli uomini. L’anima dell’infanzia si svela attraverso lo sguardo indagatore di occhi che dell’innocenza mantengono talora una fissità penetrante, talora un’espressività tenera e disarmante. I bambini di Zakamoto convertono in potenza comunicativa la fragilità che comunemente li avvolge.
Gli sguardi, colti nella loro semplicità, rompono l’atmosfera candida e ludica, in cui tali soggetti vengono convenzionalmente collocati. L’indipendenza iconografica da schemi tradizionali pone il bambino al centro del contesto figurativo, nel quale vige una totale autonomia dimensionale e prospettica dell’immagine in primo piano rispetto alle scenografie che la ospitano. La definizione di angeli attribuibile a creature celesti è sostenuta dal significato etimologico del termine che risale all’accezione di angheloi, cioè di messaggeri. Il messaggio che deriva da questo mondo concettuale è celato nelle pieghe di un tono profetico ed è sottolineato dal tema cosmico presente in molte opere dell’artista. In realtà la metafora dei bambini cosmonauti – superficialmente relegabile ad una patina esclusivamente pop-fumettistica – non è altro che strumento per enfatizzare l’onnipotenza dell’immaginario infantile. La contrapposizione infinito/ finito si traduce in ribaltamento prospettico attraverso la formula d’attenzione dell’infinito spaziale, ridotto rispetto all’ingrandimento dei volti dei bambini. Questa smaterializzazione del grande e del piccolo sovverte gli schemi consueti ed individua il nucleo essenziale dell’arte di Zakamoto: il bambino è cosmodemiurgo, ossia creatore di mondi, in grado di plasmare la realtà attraverso l’immaginazione, scintilla divina. Ogni bambino che costituisce l’espressione più germinale della natura umana detiene la libertà e la forza di superare ogni categoria adulta nella mente dell’uomo. Lo spazio subisce una riduzione di scala, il tempo non governa le età. In questo senso si può leggere la sospensione spaziale delle figure, mentre il bambino diviene paradigma temporale che incarna un eterno presente.
In questo nuovo ordine iconografico, prima ancora che contenutistico, figure infantili vagano sospese in atmosfere cosmiche e talvolta cosmologiche: ora esploratori dello spazio, ora artefici di mondi. Interi continenti divengono macchie di colore sui volti, quasi esiti di vivaci performances ludiche, mentre la Terra è una palla nelle mani di creature in apparenza così fragili, ma così eterne. Nella serie Angeli (2009), Zakamoto propone una variazione sul tema, rivisitando se stesso attraverso un nuovo linguaggio figurativo. Permane la cifra deformante della convenzionale proporzionalità, mentre gli angeli bambini volano su luoghi umani. In particolare le città sono gli scenari su cui i bambini di Zakamoto fluttuano. Il taglio personalizzante dell’ambiente antropizzato, riconducibile alla realtà, differenzia questo ciclo di opere dalle ambientazioni astronomico-planetarie dei lavori precedenti. Il luogo umano ha la meglio sul non luogo, conferendo un’aura nuova ai contenuti.
Gerusalemme, Tokio, Pechino, Madrid, Parigi, Firenze e Torino sono alcune delle città su cui volano i piccoli angeli, che dominano le grandi tele. La forza rivelatrice dei bambini riesce a sorvolare i luoghi dell’umanità, siano essi megalopoli del progresso, centri della tensione politica internazionale, storiche città del Vecchio Continente. L’ottica dell’artista agisce su ogni dimensione umana riducendo le città-simbolo del mondo in plastici scenari di gioco in cui campeggiano le espressioni curiosamente stupite e disarmanti dei volti infantili. Questa risposta spontanea è senza retorica l’affermazione della vita che si rinnova nei tanti sguardi vivaci, curiosi ma più consapevolmente disincantati di quanto voglia farci credere la nostra coscienza adulta, che rimpiange di essere cresciuta.
Fabio Carnaghi

Akira ha messo (definitivamente?) in garage le astronavi e in soffitta le isole volanti, lasciando come uniche concessioni al passato le stelline e qualche mondo che esplode: si è tutto concentrato sul volto dei bambini, dai lattanti senza nemmeno il primo dentino fino alle soglie dell'adolescenza. C'è talmente tanto mistero in un viso di bimbo che non viene più voglia di andarlo a cercare altrove. Come sempre, ciò che il visitatore osserva non è tutto, poichà© il nostro artista sente il bisogno di accompagnare le immagini con parole che ne sintetizzino il significato: tale scritto è stampato sul pieghevole della mostra, piccolo ma curatissimo oggetto cartaceo che nell'equilibrio grafico fra visi infantili, mondi in disintegrazione e parole è davvero di rara bellezza.
Akira sa non solo dipingere ma anche scrivere, e il messaggio che vuole trasmetterci con le parole è un'amplificazione, o meglio un'esegesi (personale ma non distorta) di ciò che disse Gesù circa i bambini e la necessità  di esser come loro, perchà© a chi è come loro appartiene il regno dei cieli – il quale regno, ammonisce lo stesso Maestro, non è da cercarsi altrove, nell'amletico "paese non ancora scoperto dai cui confini nessun viaggiatore ritorna", bensì quaggiù, fra noi. Per scoprirlo bisogna avere occhi e guardare nella direzione giusta. Una possibilità  è proprio quella di fissar negli occhi un bimbo e, più che non leggergli dentro, lasciare che sia lui a leggere noi. àˆ quanto suggerisce la mostra. Il modo di rappresentare gli occhi infantili da parte di Zakamoto ha raggiunto negli ultimi dipinti una raffinatezza ed efficacia ammirevoli, pur con mezzi semplici: tirando ancora in ballo il Cristo, la lucerna del tuo corpo è l'occhio, e se il tuo occhio è nella luce tutto il tuo corpo sarà  nella luce. Come il volto rappresenta per Akira la parte per il tutto ed è più che sufficiente a sintetizzare un intero corpo umano, così a sua volta l'occhio basta da sà© a far vivere e caratterizzare il viso.
Il bambino è tutto d'un pezzo: se è triste non è solo triste, è disperato, se è allegro sprizza una gioia travolgente da tutti i pori; non può nà© vuole dissimulare i sentimenti, dalla paura alla curiosità , dall'attesa alla perplessità . Akira, padre di bimbi, lo sa bene e altrettanto bene lo rende nei suoi quadri. Anche nei due casi in cui si concede il vezzo di coagulare l'alternarsi di luci ed ombre sul viso del piccolo in macchie che hanno il profilo dell'America: non è detto che l'osservatore se ne accorga subito…. Quasi inevitabile, a questo punto, scegliere un volto infantile di Zakamoto per fissare (e attirare) il possibile lettore di un libro sui bambini indaco quale L'avventura indaco – cristallo di Celia Fenn: ne esce una copertina indovinata e accattivante, che fa presagire per il nostro un futuro ricco di soddisfazioni anche come illustratore. Magari non solo di copertine, e non solo per un pubblico adulto: un libro per l'infanzia pieno di bimbi zakamotiani anche nelle pagine interne verrebbe benissimo…
Carlo Gavazzi

La sua esperienza di rebirther lo porta a ripercorrere tappe di un'infanzia dimenticata, che si traduce in una pittura essenzialista, dove gli sguardi in primo piano di infanti fungono da traghettatori del nostro sguardo interiore verso una dimensione cosmica, antica e futura come il viaggio che Stanley Kubrick fa compiere all'astronauta Bowman in 2001 Odissea nello spazio. Ad una tale odissea, interiorizzata e cosmica al tempo stesso, si riferisce la pittura di Zakamoto, che presenta alcuni punti di contatto con l'estetica giapponese dei manga, fumetti giocati esclusivamente sulle valenze emotive e narrative dell'immagine, che incontra nel colore un importante luogo di assimilazione del concetto, di esasperazione della realtà  e di trasfigurazione dello spazio-tempo lineare in immagine fantasiosa.
In un suo dipinto intitolato Il mondo ci osserva, abbastanza esemplificativo della serie, Zakamoto esalta l'azzurro degli occhi di un bimbo e il suo sguardo rivolto verso le altitudini incommensurabili di uno spazio siderale, dove a volte interi pianeti cadono in frantumi. "Per me hanno il significato di un cambiamento", dice Zakamoto. Il bimbo possiede uno sguardo indagatore ma anche di stupore metafisico, dettato dal miracolo di un esserci, qui e ora, e di essere posto di fronte alla magnificenza annichilente del creato. Sul suo volto, una macchia della pelle a forma di continente americano, ne trasforma le fattezze reali in una carta geografica dove macrocosmo e microcosmo, l'universo e l'uomo, si rispecchiano l'uno nell'altro.
I colori si fissano in questi ritratti come zone piatte di azione statica, come continenti di una mappa "politica" dell'Atlante. Zone di confine, patchwork, puzzle di zone-colore che diventano volti, sguardi, domande. Le luci e le profondità  sono l'effetto di un accostamento di tinte separate e cucite insieme, ciascuna intenta a produrre un proprio risultato, a sviluppare un frammento di linguaggio pop dove la sparizione delle sfumature, l'appiattimento del campo cromatico reso luccicante dall'uso delle lacche rappresenta una dichiarazione estetica.
Zakamoto sceglie una pittura pellicolare, zonale, dichiaratamente propensa ad una semplificazione artificiale della pittura affinchà© questa possa trasmettere sensazioni primarie, essenziali. Una pittura che non vuole distogliere attraverso l'esaltazione del particolare ma comunicare immediatamente, istintivamente, la forza di un sentimento che è quello di un'infanzia perduta e ritrovata da Zakamoto attraverso una pratica, quella del rebirthing, che è paragonabile forse ad un sogno controllato, un viaggio interiore nei meandri di ricordi ancestrali, quelli dei primi anni di vita di cui non abbiamo coscienza ma che agiscono dentro di noi come meccanismi inconsci, come traumi che scavano la personalità  e forse anche come sogni, immaginazioni, desideri che determinano scelte di cui non sappiamo, ormai adulti, dare una spiegazione esauriente. Come se un fiume carsico scorresse dentro la nostra anima scavandovi sentieri ininterrotti ai quali Zakamoto tenta di dare un volto.
Nicola Davide Angerame

Il potere dei sogni. Così meravigliosamente smisurato, il potere dei sogni, da suggerire fiabe all'orecchio omerico di cantori di ogni dove, da sublimare l'essere alla dimensione semi-divina che tutto concede e può. Può creare, vivere di un'intensità  millenaria, modellare paesaggi mentali in cui i protagonisti si alternano ma condividono, sempre, un non spazio, in cui l'unico escluso è il reale. E quando a sognare sono i pittori, con la netta volontà  di raccontarli i sogni, attraverso linguaggi espressivi che conducano lo sguardo dell'estraneo fin dentro la natura dell'onirico, allora si assiste a un miracolo. Di chi trasforma in segno ciò che per gli altri rimane astratto, di chi dà  forma e sfumature al sogno, di chi racconta una favola intrecciata alle pennellate, che ad ogni cambio di colore si gira pagina. Akira Zakamoto.
Arte dai colori brillanti, la sua, su supporti quadrati, sempre della medesima dimensione, e gli elementi ritornano, puntuali, poichà© suoi intimamente, come un sogno familiare che ricorre e non sorprende, accogliente nel circolo delle visioni; l'artista sembra trasporre sulla tela il negativo di miraggi notturni, fotografati nell'istante della rivelazione che apre gli occhi, anche nel sonno. Pittura senza filtri, varco nella mente nella piena fase allucinata in cui la visione si manifesta trepidante e vera. E così eccole, le stelle che illuminano, le pietre sospese nel vuoto, astronavi che brillano di scie vivifiche in una dimensione che nulla ha di reale. E in primo piano, con lo sguardo fisso in quello dell'osservatore, volti di angeli mostrano la via del possibile, indicando l'isola dell'eterna beatitudine, il pianeta su cui l'uomo troverà  salvezza, sempre viaggiando, personale esodo. C'è un universo pieno nelle tele dell'artista e dietro le immagini, vivide, una filosofia dell'esistenza che traspare e si manifesta attraverso quadri-racconti ricchi di segni, allusioni, trame che mai si esauriscono alla sola occhiata fugace. Il pittore torinese dal nome orientale imposta la sua pittura, tutta, sul senso di un contatto con un altro mondo, ponte che attraverso la deliziosa ignoranza di bambini-Maestri e di creature angeliche ancora non contaminate, permette all'uomo di atterrare nel non-luogo, dove la bellezza può essere assaporata e colta, in una dimensione priva di condizionamenti.
Anche per Zakamoto, come per Palumbo, è Utopia. Quando due pittori si uniscono nel segno dell'onirico si assiste a un miracolo, dicevamo. Si assiste alla costruzione di un'inespugnabile fortezza del sogno, alla volontà  di delineare marcati i confini di un limbo in cui la creazione è condivisa e il passaggio verso il non-luogo è offerto e raccontato. Ed è questa la storia che in una torre a Rivoli verrà  narrata a settembre, attraverso l'esposizione di dipinti i cui differenti linguaggi Palumbo-Zakamoto parleranno della stessa visione altra. La Torre della Filanda, dal 23 settembre al 1 ottobre diviene infatti luogo sacro in cui dipinti e realtà  indefinibili, al limite tra arte visiva e uditiva, coinvolgeranno il pubblico in un viaggio percettivo dalle sfumature sonore e tattili. Dove gli angeli di Zakamoto vivranno, sorridenti, tra le rocce delle isole di Palombo, nelle intoccabili Roccaforti del sogno.
Rosanna Dell’utri

Osservare un quadro o una scultura e mangiarsi una torta o una pizza non sono, tutto sommato, attività  molto diverse. Ci sono due modi per farlo. Il primo: non pensare, assaporare forme e colori, sapori e profumi con la metà  destra del cervello, quella che si occupa delle emozioni. Il secondo: servirsi della metà  sinistra, quella razionale, per capire quali sono gli ingredienti, come e perchè sono stati combinati e trattati. Il modo giusto è il primo, ma anche il secondo può essere utile a patto che non sia fine a se stesso ma ci aiuti ad abbandonarci in modo più consapevole alle sensazioni che il succulento piatto che abbiamo dinanzi ci suggerisce.
Se poi ti pare irriverente paragonare un dipinto di Akira Zakamoto a una altrettanto variopinta pizza quattro stagioni, ricorda che l'arte del Novecento ha avuto sovente fra le sue principali caratteristiche l'irriverenza: perciò parlare in modo irriverente di un artista che vive a cavallo fra ventesimo e ventunesimo secolo mi pare perfettamente lecito. Scopriamo dunque, uno per uno, gli ingredienti. Primo: il formato. Benchà© Zakamoto non sdegni tele rettangolari, con notevole frequenza egli usa tele quadrate. Nella mostra Isole / Le roccaforti del sogno (Rivoli 2003) campeggiava un'installazione (così la definiva lui, anche se oggi il termine fa pensare a tutt'altro) costituita da ventiquattro tele 50 per 50 dal titolo Il futuro ritorna, cui facevano riscontro rare tele rettangolari. Nella storia della pittura il supporto quadrato non è la regola, ma ci sono stati negli ultimi cent'anni artisti che lo hanno preferito. Kazimir Malevic, il profeta del Suprematismo russo, considerava il quadrato nero "lo zero delle forme" e gli attribuiva tale importanza che quando morì gli venne posto appunto un quadrato nero a capo del letto e un altro venne dipinto sulla sua tomba. Se dagli anni Dieci passiamo agli anni Sessanta del secolo scorso, di Joseph Albers sono famosi gli Omaggi al quadrato; Robert Ryman, caposcuola della Pittura Opaca, ha dipinto solo quadrati bianchi; e anche Ad Reinhardt e Frank Stella hanno mostrato una spiccata predilezione per la medesima forma. Tuttavia la loro pittura non era figurativa.
Per chi invece vuol fissare sulla tela una scena o un ritratto il formato rettangolare è quasi di rigore, sulla scia dell'abitudine che ci ha dato la macchina fotografica: tramontate le fortune delle pellicole 6 x 6, per decenni il formato 24 x 36 ha spadroneggiato, cosicchà© quando ti prepari a scattare una foto la prima cosa che pensi è: l'inquadratura migliore sarà  verticale o orizzontale? Passando alle fotocamere digitali non c'era, in assenza di pellicola, un reale motivo per continuare con rettangoli, ma tale era l'abitudine che si è scelto di farlo – anche perchà© il monitor del computer, la televisione e il proiettore non si sognano affatto di darti immagini quadrate.
Zakamoto dunque va controccorrente. C'è da aggiungere che il quadrato è una figura geometrica carica di significati simbolici: mentre il cerchio rappresenta il cielo, il quadrato è la terra. Ma il discorso ci porterebbe troppo in là . Secondo: i colori. Il pittore giapponese, o pseudo tale, non li mescola. Niente sfumature. Quello che è rosso è rosso, quello che è verde è verde. E siccome usa smalti, che ti danno una superficie uniforme anzichà© tutta alti e bassi come fanno i colori a olio, l'effetto è potenziato. Sembra dire, con gioia infantile: il colore è bello, godiamocelo così com'è; perchà© pasticciarlo, rovinarlo? Però attenzione. Il pittore dipinge forme chiaramente riconoscibili; ma i colori non necessariamente sono quelli che la natura e il senso comune suggeriscono. Un cielo può anche essere blu, ma non è affatto detto che lo sia; se poi è rosso, non vuol dire che quella sia un'aurora o un tramonto. L'unica preoccupazione è che gli accostamenti di questi colori puri funzionino: che esprimano ciò che egli ha in mente di esprimere. Il resto non conta: Zakamoto è altrettanto lontano dall'uso obbligato di colori naturali quanto dalla ricerca artificiosa di colori innaturali al solo scopo di stupire.
Non credo che egli sia convinto, come Kandinskij, che il giallo sembri espandersi e avvicinarsi, che il blu si contragga e si allontani, che il viola sia malato e l'arancione sano; ma è indubbio che egli scelga i colori in base a una sua logica interna e personale, che si sia creato una gerarchia di valori e di significati (magari assai diversi da quelli del maestro russo) alla quale si attiene rigorosamente. La scelta dei colori è collegata, insieme a molto altro, al terzo punto: il sapiente uso del computer. Qualcuno si vergognerebbe di ammettere che si serve del computer per metter giù il bozzetto di un quadro; lui no. Del resto oggi gli architetti non disegnano al computer tutto ciò che fino a poco fa disegnavano a mano? Scrive Zakamoto: "utilizzo immagini fotografiche fatte con una camera digitale, quindi produco uno schizzo grossolano a mano, con il computer stilizzo le forme e scelgo i colori." Dal computer inoltre arrivano pianeti (compresi la Terra e Saturno), stelline e altri segni grafici. Ma punterei il dito sulla frase "con il computer stilizzo le forme". Ecco un modo come molti altri per ricercare in una figura l'essenziale: non solo un atteggiamento diventa immediatamente riconoscibile, ma anche un'emozione ci viene trasmessa con chiarezza e senza possibilità  di equivoci. Diamine, emozioni da un computer? Ebbene sì: nel XXI secolo non possiamo permetterci di vedervi nulla di strano o scoveniente. Il metodo funziona. Va inoltre notato che la scomposizione di mani e volti (o parti di volti) in aree nette di colori diversi effettuata dal computer oltre a metterne in evidenza, come si è detto, le caratteristiche essenziali ha l'effetto in certo modo di appiattirli. Se la pittura è stata per secoli, e per qualcuno è ancora, il fingere le tre dimensioni su un supporto che ne possiede solo due, nelle figure umane di Akira la terza dimensione finisce per risultare simbolica, non effettivamente rappresentata in un tentativo di trompe l'oeil come hanno fatto per millenni i pittori, prima quelli di Roma antica e poi quelli europei da Giotto in poi.
Se anzichà© quadri che raffigurano un volto le tele di Zakamoto fossero carte geografiche che riproducono un territorio montuoso, non sarebbero di quelle che disegnano al tratteggio le vette, le creste e le valli, ma di quelle che si affidano alle curve di livello: chi utilizza la carta ben conosce il significato delle isoipse e osservandole vede ogni caratteristica del rilievo, ma per farlo ha messo in moto – probabilmente senza rendersene conto – quella parte di cervello che è deputata all'intelligenza dei simboli e non alla decifrazione delle immagini. E stiamo arrivando al quarto ingrediente della nostra pizza: la composizione. Con queste figure umane o loro parti in primo piano fanno singolare contrasto i fasci di luce che giungono dall'alto, da astronavi o isole galleggianti nell'etere. Tutti noi abbiamo presenti fotografie in cui il primo piano è a fuoco, e perciò finge efficacemente la terza dimensione, e lo sfondo è volutamente sfocato e perciò piatto: chiunque di noi ha sicuramente usato più di una volta questa tecnica nei ritratti.
Ma nelle tele di Zakamoto è il primo piano a risultare piatto per quanto si è appena detto, mentre i fasci di luce (che ricordano quelli di un proiettore da teatro, e perciò suggeriscono all'inconscio dell'osservatore che quella è una scena, che lì sta per accadere qualcosa) conferiscono allo sfondo una tridimensionalità  perfetta, degna dei pittori rinascimentali e dei loro pavimenti a tarsie marmoree che, convergendo verso il trono su cui sedeva l'immancabile Madonna con Bambino, avevano uno scopo non molto diverso. E siccome non siamo abituati a una figura piatta che campeggi davanti a uno sfondo tridimensionale, l'effetto che ne risulta è di straniamento e di leggera inquietudine. Si potrebbe dire che il vero soggetto del quadro non è il bimbo o la donna in primo piano, è il fascio di luce cosmica che gli sta dietro. Alla prospettiva suggerita dai proiettori appesi ad astronavi ed isole spaziali si affiancano le originali prospettive dall'alto in basso (il volto di un bimbo come è visto da un adulto) e dal basso in alto (il volto dell'adulto visto dal bimbo). Strano a dirsi, la soluzione, che può parere ovvia, è tutt'altro che comune: a quali altri pittori che abbiano raffigurato bambini (ce ne sono state legioni, e Zakamoto va inserito a buon diritto nel numero data la frequenza del soggetto nei suoi quadri) è venuta l'idea di osservarli in tal modo? Mutatis mutandis, viene in mente il Cristo morto del Mantegna, l'esempio più strepitoso dell'applicazione di una prospettiva insolita. A questo punto siamo passati al quinto ingrediente: chiamatelo come volete, surrealismo, pittura metafisica. Già  il sentimento di attesa, di qualcosa (ma che cosa?) che sicuramente capiterà  di qui a poco, non è una novità : è stato notato a proposito delle Piazze d'Italia di De Chirico. Ma qua e là  Zakamoto va ben oltre.
Prendiamo un quadro come La fine di un'era: l'impressionante Terra con i continenti bianchi e gli oceani rossi è per un terzo immersa in qualcosa di blu… sì ma, diamine, in che cosa? Il cielo può essere anche blu, ma un pianeta non può galleggiarvi come nel mare, applicando il principio di Archimede! E allora questa Terra rossa di sangue che sta per andare a fondo in un impossibile mare cosmico è parente assai stretta del Nuotatore solitario – per restare a De Chirico – che a grandi bracciate attraversa la propria stanza districandosi fra i mobili. Con un salto d'epoca e di qualità  non da poco, dobbiamo però constatare che accanto alle lezioni di grandi maestri della pittura il nostro artista ha tenuto presenti (fino a che punto consciamente?) i suggerimenti che gli offrivano i cartoni animati, in particolare quelli giapponesi che furoreggiavano alla TV quando egli era fanciullo. Molte scene delle sue tele sembrano fotogrammi di un cartone animato: il volto del bimbo in primo piano con occhi e bocca in forte evidenza, le stelline, le astronavi… Anche qui, niente di scandaloso e neppure di nuovo: Andy Warhol e Roy Lichtenstein, i due massimi rappresentanti della Pop art, hanno iniziato la loro carriera ispirandosi ai fumetti, dei quali del resto è tipica la suddivisione dell'immagine in aree nette di colore, senza sfumature o sovrapposizioni.
Ma i fumetti, i cartoons, i cartoni animati son concepiti – lo dice il nome – per essere disegnati su carta. E qui entra in gioco il sesto punto: il supporto. La tela è da secoli il più ovvio e banale dei supporti, a nessuno viene in mente di notarne la presenza se non quando Lucio Fontana l'ha bucata o squarciata alla ricerca della terza dimensione; ma qui uno si accorge con stupore che sotto i lucidi smalti con cui Zakamoto ha delineato le sue figure c'è, appunto, una tela. Sembrerebbero forme e scene non da tela; perciò la presenza del più classico dei supporti ha un impatto tutt'altro che trascurabile. Ci dice: va bene, astronavi, stelline, bimbi dagli occhi sgranati, pianeti che affogano… ma attenzione, tutto questo non è un cartone animato nà© una pagina di Tex o Topolino, è un quadro con tutti i crismi e come tale lo dovete osservare. L'emozione che può trasmettervi un quadro non è l'emozione che vi dà  un fumetto, con tutto il rispetto per quest'ultimo: siamo su piani diversi. Se ci riallacciamo a quanto Zakamoto dichiara circa il suo metodo di elaborare dapprima le immagini al computer, questo passare, come atto finale, alla tela dando loro la dignità  di quadri è in certo modo il contrario del procedimento che seguivano – in un'epoca in cui nessuno aveva a casa propria un PC – gli adepti della Pop art: soprattutto all'inizio essi operavano a mano libera, o con tecniche semiartigianali, cercando di simulare i risultati che davano le lavorazioni industriali usate nel mondo della pubblicità . Tipico il caso di Lichtenstein, che dipingeva con uno spazzolino attraverso una lamiera forata per fingere la sgranatura che dà  la stampa di una foto alle grandi dimensioni di un manifesto pubblicitario. E Warhol diceva: "voglio essere una macchina, e sento che quando faccio una cosa… alla maniera di una macchina ottengo il risultato che voglio." L'opposto di Akira, che maneggia da maestro una macchina sofisticata come i computer del terzo millennio ma… vuol essere un pittore. Settimo punto.
Alle spalle di tutti gli espedienti pratici fin qui elencati esistono delle convinzioni teoriche. Una fra le principali è: siamo tutti dei. (Tra parentesi, nel Vangelo di Giovanni Gesù, per tappar la bocca a chi lo accusa di farsi figlio di Dio, cita un passo dell'Antico Testamento che suona: Io ho detto: voi siete dèi, spiazzando gli interlocutori.) Di qui l'idea di una performance in occasione della quale "i visitatori si riapproprino della loro deità ": Zakamoto li intervista, li fotografa, elabora al computer l'immagine inserendovi elementi tratti da Internet e trasforma il tutto in una cartolina con la scritta "IO SONO DIO", da immettere nella rete nel sito dell'artista.
Tale sito finirà  dunque per diventare qualcosa di simile alla sala personale di Franco Vaccari alla Biennale veneziana del 1972: i visitatori si autofotagrafavano con una Polaroid e appendevano al muro la loro immagine, cosicchà© a fine mostra ce n'erano migliaia. Simile, ma molto più raffinato sia dal punto di vista grafico (niente elaborazioni al computer per Vaccari) sia da quello concettuale (là  i visitatori erano semplicemente invitati a lasciar traccia del proprio passaggio, non erano promossi a dèi). Ottavo e ultimo punto. Luca Motolese non si è accontentato di cambiar nome e cognome: di pittori che hanno scelto pseudonimi la storia dell'arte è piena e alcuni sono grossi nomi – pensiamo ad Alberto Savinio. No, lui si è pure scritto un'autobiografia giapponese un tantino demenziale, comprendente anche un rapimento da parte degli alieni (perchà© altrimenti come mai ci sarebbero tante astronavi e isole siderali nei suoi quadri?).
Il lettore un po' sorride divertito di questa ironica presa in giro e un po' è tentato di credere che sotto sotto ci sia qualcosa di serio: l'allegoria di un improvviso e profondo cambiamento nel modo di percepire la realtà  da parte dell'artista, dovuto magari a qualche evento non meno traumatico di un rapimento nello spazio. Resta il fatto che la cornice giapponese – alla quale non sono forse estranei i citati cartoni animati – ha un suo fascino; e dall'Italia al Sol Levante nel cognome che muta – da Motolese a Zakamoto – rimangono fortunatamente invariate le sillabe MOTO, perchà© era evidentemente scritto nelle stelle che il nostro sarebbe diventato un motociclista… Ho iniziato con un'irriverenza e termino con un'altra: a me lo pseudonimo ricorda irresistibilmente Tofusho Lamoto, il ridicolo campione motociclistico giapponese che quando ero giovane campeggiava nella pubblicità  del callifugo del Dottor Ciccarelli. Come abbiamo visto, quello che pareva un piatto tutto sommato semplice (una pizza Margherita?) ci ha invece rivelato un numero di ingredienti che non sospettavamo. Essi sono stati scelti e mescolati con sapienza.
E sicuramente gli otto che ho elencato non sono tutti: al lettore il compito di identificare gli altri. Essi hanno illustri precedenti nella storia dell'arte del Ventesimo Secolo e in qualche caso dei secoli precedenti. Questo non vuol dire che Akira abbia pedestremente copiato idee o tecniche altrui: vuol dire che non è un velleitario improvvisatore, che ha solide basi. Naturalmente non basta che vi siano numerosi buoni ingredienti perchà© un piatto risulti sopraffino; se però gli ingredienti sono pochi e cattivi, non potremo aspettarci gran che… E allora, sono belli o sono brutti i quadri di Zakamoto? Se è vero quello che sostiene Walter Gropius, ossia che la bellezza dipende "dalla sicura padronanza di tutti i requisiti scientifici, tecnici e formali che costituiscono un organismo", dovrebbero essere belli. Ma la domanda è futile. Tristan Tzara, il profeta del Dadaismo, scriveva che "un'opera d'arte non è mai bella per decreto legge, obiettivamente, all'unanimità ". Dunque decidi tu, lettore, se le tele quadrate del nostro pseudo-giapponese ti vanno a genio.
A me piacciono. A mia madre – che è moglie di un pittore – anche. Ma a questo punto se hai avuto la pazienza di seguirmi fin qui capirai che è tempo di smetterla con le parole e di sedersi a tavola. "Per guardare un quadro ci vuole una sedia", sosteneva Paul Klee, ma non consigliava di prendere anche coltello, forchetta e tovagliolo. Qui, invece, la pizza è servita: buon appetito!
Carlo Gavazzi